Materiali del Centro del Discorso

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Venerdì 5 – sabato 6 – domenica 7 dicembre 2008

Primo appuntamento

SEMINARIO “IL CENTRO DEL DISCORSO”

Partire da un punto di vista individuale messo a disposizione degli altri è un buon modo per comunicare, aprire un dialogo che vorrebbe portare a comuni intenti approfittando di un ventaglio di punti di vista ed esperienze diverse.

Per questo INDUMA TEATRO, promotore, insieme alle Manifatture Knos, del Premio di Drammaturgia Contemporanea “IL CENTRO DEL DISCORSO”, ha sollecitato l’invio di contributi scritti, da parte dei partecipanti al seminario, da inviare anticipatamente, come punto di partenza utile alla discussione

CONTRIBUTI DI:

Arturo Cirillo

Andrea Porcheddu

Antonio Tarantino

Clarissa Veronico

Fabrizio Parenti

Francesco Farina

Luca Ricci

Manuela Cherubini

Maria Luisa Mastrogiovanni

Massimiliano Civica

Nicola Viesti

Paolo Musio

Pietro Minniti

Renzo Martinelli

Roberto Corradino

Roberto Ricco

Sonia Antinori

Katharina Trabert

IL CENTRO DEL DISCORSO”

Di Arturo Cirillo

Caro Werner,

mi chiedi qualcosa di scritto per il vostro incontro di venerdì legato al premio di drammaturgia Il centro del discorso. Io, come tu sai bene, faccio un teatro che ha al centro la drammaturgia e la parola, pur credendo nello stesso tempo che esse siano, entrambe, legate profondamente al corpo. Parlerei di una fisicità del testo, cioè quella capacità di sottintendere un’azione, e di pensare alla parola come a qualcosa che dovrà diventare suono e fiato.

Questo per dire che sarebbe forse utile capire cosa sia un buon testo per il teatro, come nasce e come possa vivere.

La scelta di un testo, per esempio da parte di un regista, è credo legata anche da motivazioni misteriose, talmente intime da essere ignote a volte anche a lui stesso. Vi sono però, per quanto mi riguarda, anche delle motivazioni più evidenti e riconoscibili. La cosa che a me pare forse più importante è percepire il rapporto che ha un testo col teatro, nella sua pratica e non nella sua teoria. Direi che per me il testo pur essendo un opera letteraria dovrebbe apparirlo il meno possibile. Più che la qualità della scrittura dovrei sentire la “voce”, quasi una sua naturale intonazione. Come se quello che fosse stato scritto sulla pagina fosse la trasposizione di un parlato, e il racconto di un accadimento già avvenuto, di cui il testo è la testimonianza e il materiale, da cui ripartire per permettere ad una storia di poter riaccadere.

Ecco mi accorgo scrivendo che la storia è per me anche un elemento di grande attrazione. A teatro si narra senza narrare, si narra nel tempo presente degli accadimenti, infatti non mi piacciono in genere i flashback, o le voci fuori campo. Un buon testo credo che sia quello che senza darlo a vedere, piano piano, battuta dopo battuta, ti dà una serie di informazioni, a volte ti racconta un antefatto, o ti fa capire le relazioni tra i personaggi, ma tutto sempre nel dialogo, e nell’impressione di una cosa che nasca lì, per caso o per incidente

Credo che per scrivere bene per il teatro si debba frequentare molto il palcoscenico, e conoscere gli esseri umani. Avere delle emozioni, forse quasi più che dei pensieri, e sapere sempre che ciò che si sta scrivendo andrà, prima o poi, recitato. Forse ci si dovrebbe immaginare già una sua rappresentazione, forse scrivere un testo è già un primo atto di regia. Io per esempio un testo che devo portare in scena me lo leggo tante volte, quasi come se alla fine lo avessi scritto io, e credo che il portare a memoria un testo è anche una forma di appropriazione da parte di un attore, quasi una riscrittura, il suo diventarne l’autore.

In genere nei testi di drammaturgia contemporanea quello che mi pare mancare è proprio una sua teatralità, l’essere nato per la scena e non per la lettura. Già dall’uso della lingua si sente a volte che qualcosa non va, e non mi appare casuale che le cose migliori di quest’anni siano state scritte in dialetti, veri o inventati che siano. Come se la lingua italiana avesse bisogno di una maggiore fisicità e anche musicalità, avesse bisogno di una storia, una storia antica che si è conservata nel corpo, e che solo i dialetti in Italia hanno.

Mi sembra una buona idea, per un nuovo premio di drammaturgia, quella d’ insistere molto su la trasposizione scenica dei testi, sia attraverso laboratori, che letture, che vere e proprie messe in scena.

Penso ad analoghe esperienze, come il premio ExtraCandone, dove però accanto ad una rete distributiva piuttosto ampia non mi sembra che ci sia stata, almeno finora, un altrettanto felice scelta dei testi.

Mi sembra poi che una politica della committenza, con tempi troppo rapidi, a volte a scrittori che non hanno mai scritto per il teatro, non sia un esperienza che porti grandi frutti, e mi riferisco ai progetti di drammaturgia del Napoli Teatro Festival.

Mi auguro che per questo premio si possa contare su qualche prodotto di qualità, poiché non credo che la drammaturgia contemporanea vada sostenuta a prescindere. E’ indubbio che essa ha delle difficoltà di giro enormi, data anche la stragrande pigrizia, aggiunta a codardia, dei nostri distributori e programmatori.

Mi piacerebbe che questo nuovo premio servisse, soprattutto, a mettere in contatto dei bravi scrittori con la particolare e non facile arte del teatro, per avere dei testi, in futuro, che siano l’espressione di un gruppo di persone che lavorano insieme, o magari di una felice intesa sul campo tra un regista ed un autore. Perché un autore di testi non può scrivere per il teatro senza avere un idea di teatro, del suo teatro o di quello di qualcun altro.

Ti abbraccio e auguro a te e agli altri giurati un buon lavoro.

Saluti da Udine

Arturo

Parole che figliano parole

Di Andrea Porcheddu

Quel che affascina, di questo incontro, è contenuto nel titolo creato da Werner e Lea. “Il centro del discorso”. Perché insita vi è una sfida, ossia trovare quel “centro”, o – come avrebbe detto un critico come Adriano Tilgher, il problema centrale. Poi, e conseguentemente, si tratta di non perdere di vista il “discorso”, ossia il dialogo, ovvero ancora quell’arte in via di sparizione che è la capacità non solo di parlare (del mondo e di sé attraverso lo strumento privilegiato della parola), ma di ascoltare. Allora dobbiamo focalizzare il nostro obiettivo all’interno del discorso. Ma dobbiamo attivare, al tempo stesso, una metanarrazione: ossia cogliere l’oggetto del discorso. Che è la drammaturgia (còlta qui in forma di progetto e futuro premio): ossia il testo scritto per il teatro.

Jean Paul Sartre fu candidamente categorico: Il faut écrire. Bisogna scrivere. Lo ricorda Nicola Chiaromonte in un bel saggio dedicato alla drammaturgia italiana. Ma, segnala il critico, per il teatro non basta. A teatro «è la parola parlata che conta». Lo scritto torna alla sua origine e alla sua funzione primordiale. In teatro riacquista, come in uno specchio magico, il corpo, il gesto, le circostanze, l’urto vivo degli affetti e dei pensieri.

Più o meno negli stessi anni (lo scritto di Chiaromonte è del 1962), anche Roland Barthes parlava del “piacere del testo”. Ma al culmine di una impressionante e analitica vivisezione del testo pone un elemento contraddittorio: la «grana della voce». Un elemento variabile, imprendibile, soggettivo, caldo, colorato. La parola scritta del testo, per essere effettivamente piacere, deve attingere alla «grana della voce», non può prescindere da quella che i retori latini chiamavano “actio”.

In teatro il centro del discorso è dunque il testo scritto nella sua inesorabile e necessaria forma orale. Ortega y Gasset afferma che il libro è «un dire pietrificato», mentre il dialogo (emissione/ascolto, quindi necessario incontro con l’Altro da sé) è vivo e personale, è ritmo e presenza, desiderio e intenzione: la grana della voce.

Ma resta l’imperativo sartriano. Bisogna scrivere. Il teatro che perde la parola è come un popolo che perde la parola. Enzo Buttitta, nella forza carnosa del suo dialetto, ce lo ricorda: un popolo è ricco anche se messo alla catena, se è spogliato, sfruttato, senza lavoro. Ma quel popolo diventa povero e servo quando «gli rubano la lingua e le parole. Quando le parole non figliano parole». Abbiamo costante bisogno di una drammaturgia. Di un discorso che sia al centro del teatro.

E però non possiamo non registrare delle contraddizioni: affrontiamo, qui, l’ipotesi di un nuovo premio alla scrittura. L’Italia è piena di premi di drammaturgia, ed è piena di autori teatrali. Ce ne sono tanti, tantissimi. Possiamo citare i migliori: Tarantino, Moresco, Scarpa, Paravidino, Chiti, Cavosi, Gabrielli, Trevisan, Emma Dante, Martinelli, Moscato, Letizia Russo, cui possiamo affiancare Franceschi, Celestini, La Ruina, Giuseppe Montesano, e ancora Mimmo Borrelli e Stefano Massini. Sono solo alcuni nomi, se ne possono fare ancora altri. E allora perché continuiamo ad inseguire l’autore? Non bastano questi? Sono tanti. Basterebbe metterli in scena, forse

Il problema, allora, è che l’Italia ha molti drammaturghi ma non ha una drammaturgia. Ha molte lingue (anche teatrali) ma raramente queste si trasformano in una lingua che sappia parlare. Ha molti testi, ma non sono o non diventano teatro.

Ha molte parole, ma non figliano parole.

CONSIDERAZIONI SU QUELLA CHE VIENE DEFINITA

LA NUOVA DRAMMATURGIA”

Di Antonio Tarantino

Fino all’inizio degli anni novanta i critici, i registi, gli attori e la gente di teatro in genere non avevano molta fiducia in quanti si applicassero alla scrittura di testi. Questo perché gli autori erano considerati, innanzitutto e perlopiù, scrittori di altre discipline, per esempio narratori ma non solo, prestati alla drammaturgia. Insomma, gente di buona volontà che si era preso l’impegno di accompagnare all’ultima dimora un’antichissima arte ormai moribonda.

Ma di lì a poco ci si sarebbe dovuti ricredere dinnanzi al fiorire di una leva di giovani talenti i quali, senza particolari timori reverenziali, venivano considerando la scrittura drammaturgica una possibilità accanto alle altre offerte dall’arte nelle sue varie declinazioni e nei suoi molti modi. L’arte drammatica era tornata a essere un aspetto della prassi, un’attività praticabile.

Ma cosa era accaduto di tanto speciale affinchè un tratto dello spirito umano che sembrava essersi eclissato potesse invece riapparire e manifestarsi?

A mio parere non era accaduto niente: si trattava di una di quelle periodiche ricorrenze che vanno rubricate come corsi e ricorsi storici.

Stando all’autorità del grande critico delle numerose forme letterarie che si chiama Northrop Frye e che ha analizzato ed esposto le sue ricerche in un saggio intitolato: “Anatomia della critica” edito da Einaudi, nel corso dei secoli e dei millenni, quella che per intenderci chiameremo “poesia drammatica” giustapposta alla poesia lirica all’epica e alle forme narrative, appare di tempo in tempo per poi declinare fino e scomparire quasi del tutto in virtù (o in mancanza) di elementi “fertilizzanti” presenti nelle varie società: elementi forti, fattori storici singolari e importanti che hanno più o meno la valenza di effervescenze, se non proprio di moti, rivoluzionari. In tali occasioni una “crisi2 di una qualsiasi natura spinge la società nella quale si manifesta ad aprire un dialogo con se stessa e a ritrovare, per questa via, i cittadini di una polis ai quali più nessuno si era rivolto da un palcoscenico.

Va da sé che questo genere letterario, stando così le cose, finisce con l’acquistare fiducia nei propri mezzi. Almeno sino a quando una nuova eclissi lo priverà della forza, di quella forza che sostiene – dopo averla generata – la presunzione di rappresentare il proprio mondo.

La pratica della scrittura teatrale, intesa in senso forte, è quindi un fenomeno transeunte. Bisognerà quindi vedere con favore il nascere di un concorso di drammaturgia – specialmente se rivolto ai giovani – affinché questo momento storico che vede una fioritura di validi testi teatrali non si esaurisca in breve tempo ma, al contrario, si protragga il più possibile.

Sempre che le Istituzioni abbiano il senso del futuro.

IL CENTRO DEL DISCORSO”

Di Clarissa Veronico

Inavvertitamente è comparso nel vocabolario comune degli operatori teatrali il termine “funziona”, chiave di collegamento con il mercato, chiave di accesso e messa in opera di un prodotto che diversamente non potrebbe diventare parte di un meccanismo, non potrebbe cioè accedere proprio a quel fine relazionale e di visibilità che ne motiva l’esistenza. Con il termine “funziona” si è finito per indicare sia la compiutezza drammaturgica e registica di uno spettacolo, sia la sua funzionalità, ovvero, quale segmento del mercato dell’arte può occupare, a quali bisogni può rispondere e quali bisogni può indurre. La riconversione del teatro d’impresa in impresa teatrale ha fatto sì che alcuni “capi assoluti”, utili strumenti del linguaggio per comunicare l’indecifrabilità vitale dello spettacolo dal vivo, divenissero parametri, attestassero cioè non più la singolarità e unicità di un processo artistico, ma l’identità, dichiarativa e determinata, del prodotto da vendere.

La sfida dentro la quale si è trovato a dibattere il teatro d’impresa è di natura filosofico-economica, perché quanto richiesto per rimanere teatro d’arte è perseguire il carattere di singolarità e individualità, quanto richiesto per poter essere impresa teatrale è testimoniare l’identità nel suo valore non già di cifra connotativa ma di identificazione.

Dentro il gioco di questa sfida si genera la differenza tra merce e prodotto, ma ancor di più si gioca il senso stesso del fare arte, resistere a un’omologazione di forme e contenuti che equivocano lo stile con la maniera, resistere all’interpretazione del ruolo dell’intellettuale e dell’artista come mediatore e interprete della realtà razionale per cercare di concepirlo piuttosto come il prefiguratore di una realtà differente, di una visione sempre altra, sempre inedita di un reale non razionale, resistere infine a considerare gli spettatori unicamente come “pubblico”.

Identificare uno spettacolo come un’azione funzionante, come latore di una chiave di accesso alla relazione con gli spettatori, che in termini aziendali significa alla collocazione sul mercato, alla vendibilità, è intimamente legato all’idea che conosciamo gli altri della nostra relazione. Sappiamo chi sono, dove possiamo trovarli, cosa vogliono. I nostri altri sono diventati una categoria, il cliente a cui ci riferiamo. Quanto di liquido appartiene all’incontro con un altro essere umano, inafferrabile e fluido, ci rimane tra le mani come un conduttore di certezze, solido come una strategia di marketing. E delle cose solide si può dire che quando si immergono in un liquido, che affondino o galleggino, tendenzialmente spostano materia, più difficilmente creano soluzioni.

Con ciò il marketing esiste, eppure gli spettatori non sono una categoria.

Il teatro, quale luogo della relazione tra attore e spettatore in un determinato tempo e spazio, poggia il suo equilibrio e il suo stesso senso nella coesistenza delle sue variabili, nella mutevolezza del farsi azione, non di esserlo già. La definizione pur di una sola variabile ne invalida la struttura. Nell’equilibrio misterioso della vita che è capace di nascere dalla relazione tra esseri umani presenti a se stessi e all’altro, se uno solo degli elementi che permettono tale vita si trasforma in dato scientifico, l’intera struttura si trasforma in sequenza di dati, l’arte si trasforma in equazione matematica risolvibile. Se considerati una chiave d’accesso gli spettatori si sottraggono e con loro l’idea di mercato, che rimane altrove, nella nozione di un tutto comunicato dove il teatro occupa il posto dell’incomunicabile.

Né un Dio, né un’idea potranno salvarci ma solo una relazione vitale”: stralci di conversazioni e letture affiorano in questo viaggio, amori talmente profondi da emergere nei contesti meno aspettati. Se è la relazione vitale l’unica risposta in questo mare pieno di scogli, l’unica salvezza dagli assalti così sottili di un mercato comunque povero e al quale non ci si può sottrarre, allora la prima relazione è con se stessi. Con quel sé artista, organizzatore o spettatore che si sia.

Una relazione talmente profonda e aperta verso sé che lo diventi inevitabilmente verso l’altro. Che lo diventi necessariamente. Non per un’idea di bene per l’accrescimento collettivo né per quella di patrimonio culturale. Necessario come la vita a cui ogni essere vivente tende.

L’unico possibile mercato di un prodotto che non può essere merce è nel valore dell’azione produttiva, quotidiana, reiterabile ma non ripetibile. L’unico equilibrio tra sostanza solida e sostanza liquida è nel passaggio del cambiamento di stato, nel sentirsiliquefatti.

IL CENTRO DEL DISCORSO”

Tutte le parole che esistono innescano delle aspettative” Tiziano Scarpa

Passando la nostra esistenza dal presente al passato, si

diventa, al passato, ciò che non si era, al presente

Vitaliano Trevisan

Di Fabrizio Parenti– Milano11/08

Ho passato nella mia vita la stessa quantità di tempo sia a vivere il mio presente sia a riflettere su cosa rappresentasse. Questo perchè, in fondo, non credo possiamo davvero pensare che l’essere umano sia capace di cambiare tanto da trovare unicità in un tempo qualsiasi tale da distinguerlo da quelli precedenti o successivi ma credo che la particolarità di tutti i presenti sia nel loro rappresentarsi, nella maniera in cui si manifestano le forme, le mode e,naturalmente, i sentimenti che da sempre fanno parte della nostra natura e che ogni volta,mostrandosi meravigliosamente collegati alla nostra vita quotidiana, ti danno la sensazione di essere il primo a capire VERAMENTE un quadro, un libro o semplicemente a provare un emozione. Probabilmente solo per evitare la trista percezione della ripetitività delle nostre esistenze che,tanto per iniziare a parlare un po’ di teatro,assomigliano alle repliche di un musical di successo (Notre dame de Paris?Rocky horror pictures show ? mah !?) in cui cambiano gli interpreti di anno in anno ma non lo spettacolo

Dunque credo che quando si parla di contemporaneo bisogna considerarne la percezione quanto la composizione. E dunque, come si manifesta il nostro hic et nunc, e, sopratutto, come lo manifestiamo facendo teatro? In particolare, teatro di parola ?

Ho visto recentemente tre spettacoli di tre compagniedi età diversa che mi hanno colpito per ragioni diverse. Non so se farne i titoli, vorrei usarli come come esempio neutro,almeno per ora. Due erano di un età considerata teatralmente molto giovane ma che biologicamente non lo è, i trenta anni, ed erano scritture degli stessi interpreti. Anche il terzo spettacolo era scritto da gli interpreti,questa volta però di un età più avanzata. La prima impressione è quella di una totale separazione dei linguaggi, come se non si usasse la stessa lingua. Sotto una certa età l’uso di alcune parole non appartenenti direttamente al presente, il riferimento ad ogni tipo di teatro che non sia stato visto il giorno prima sono inesistenti. Sono gruppi nati ieri,anzi stamattina, dove l’idea non di appartenere ma neanche di confrontarsi con un canone è impossibile, perchè il canone non è neanche previsto possa esistere. In compenso esiste la moda, la tendenza ,e infatti ci sono elementi che immediatamente fanno comunity, rendono identificabili gli interpreti agli spettatori e viceversa, come se servisse una passeword generazionale per poter partecipare in qualsiasi modo all’evento in corso (ho usato due parole molto usate negli spettacoli in questione, tanto come assaggio). Questo a prescindere dalla bellezza o dalla qualità dello spettacolo (a mio avviso uno era estremamente brutto, l’altro aveva delle cose interessanti) e anche da l’argomento (anche se tutti e due appartenevano al genere “riflessione su la contemporaneità”).

Il terzo era di un genere totalmente diverso, si potrebbe definire una antologia di linguaggi teatrali rielaborati e riciclati in perfetto sentimento di appartenenza ad un comune sistema semantico, quello teatrale, dove ogni cosa rimanda ad un’altra. Forse potrà sembrare che io,come gusto penda verso quest’ultimo esempio,e potrebbe essere vero, ma non è questo il punto;la cosa che vorrei capire è se ci stiamo dividendo tra chi fa il teatro con il teatro e chi lo fa senza teatro. In sostanza mi pare di capire che per alcuni il teatro è talmente contemporaneo che è nato con loro,per loro e che senza di loro è destinato a tornare nell’oblio dove miseramente giaceva fino al loro arrivo,mentre per altri è un luogo dove trovare nel presente le tracce di passato che servono in questo momento. Va bene, si potrà dire che spesso si inizia con l’arroganza del debuttante e poi ci si forma con l’esperienza acquistata sul campo, ma in questo caso sembrerebbe esserci una tale e tanta distanza tra espressività e sensibilità da impedire ogni tipo di comunicazione.

Che significa? Stiamo andando verso un teatro generazionale, spettacoli diversificati a seconda che il pubblico e gli autori abbiano o no conosciuto precedenti modelli? Non sono mai stato un fautore del teatro come valore ideologico o museale,dell’ortodossia teatrale che prevede cosa e come si faccia uno spettacolo o un autore ma è, almeno per la mia esperienza, impensabile che non si senta il proprio agire in scena come appartenente ad un sistema che contiene tutto, ma proprio tutto, al suo interno, che mette insieme i Sanzio e Giulio Bosetti, Carmelo Bene e Macario, la tragedia e l’avanspettacolo. Perchè solo sentendo questo si evitare le insidie dell’autoreferenzialismo, la mancanza di memoria storica che può vivere solo attraverso la riproposizione di ciò che si è visto, sottraendo stili e interpreti alla scomparsa dettata dalla totale incapacità a sapere per chi va oggi in qualsiasi luogo si faccia teatro ciò che è successo ieri. E la stessa natura dell’esperienza teatrale, cioè far parte di una agorà che, in determinati luoghi e tempi mette insieme persone tra loro diverse, come fanno religione e politica, per riflettere sul mondo e su i suoi valori/dolori, non rischia di essere inficiata da queste differenze generazionali-culturali, visto che ne dovrebbero poter far parte tutti?

Vi è un altro problema, forse ancora più profondo, che credo meriti una riflessione:la lingua. L’italiano è una lingua bella ma non particolarmente felice né fortunata; parlata poco nel mondo(se non in orribili storpiature da emigrati che sperano così di mantenere un legame con la madre patria), difficile da modernizzare senza banalizzarla, soprattutto inventata dalla televisione in sostituzione dei dialetti,quelli si parlati e compresi con facilità da tutti, dei quali mantiene fondamentalmente tre filoni di inflessione, il romano, il milanese ed il napoletano. Ora, essendo difficile,almeno per il momento, pensare di poter recitare in inglese anche qui (probabilmente il futuro sarà questo, magari l’italianglish, magari con il cinese sarebbe anche più divertente, ma credo ci voglia ancora tempo) penso che in questo momento il problema di che lingua serva in scena è drammatico, anche perchè ormai si sta raggiungendo il massimo dell’ analfabetismo in qualsiasi conversazione o scrittura nel nostro idioma. Faccio presente che questo può essere imputabile alla tv, in particolare alla Rai e a Mediaset con le sue De Filippi e Italie 1, a Silvio Berlusconi e alla svalorizzazione della Cultura con la C maiuscola,alla decadenza dei tempi, al calcio o a chi vi pare ma riguarda tutti, anche coloro i quali si stracciano le vesti invocando il ritorno a grandi valori artistici-morali Come si esce da tutto ciò (ammesso sia possibile)? Nella mia esperienza di regista ed attore l’unica strada percorsa con un certo successo è la ripresa di parole apparentemente morte ed interrate con la naturalezza del quotidiano, come se fossero usate e alla portata di tutti senza alcun problema, insomma normali parole usabili al posto di altre solo perchè ti piacciono di più. Questo crea graziosi corto circuiti nel pubblico, tra chi si sente finalmente sottratto alla tirrania del bigino linguistico imperante e chi scopre un mondo nuovo (forse è meglio dire vecchio), anche se poi probabilmente non sa bene cosa farci. Ma chi scrive? Che deve fare? I due scrittori citati all’inizio del testo sono due scrittori che amo molto, anche come drammaturghi. La loro scrittura è diversa, ma credo che rappresenti due vie di fuga possibili da questo problema; Scarpa scrive come uno scrittore consapevolmente colto, che sa usare come gli pare quello che conosce in merito a stili e riferimenti e che quindi si può permettere ogni tipo di eccesso o spericolatezza linguistica con la serenità di chi ha saputo come e quando farlo ottenendo così splendi momenti di profondità e di stupore. Trevisan ha un ritmo ed un vocabolario quasi biologico, massicci e incandescenti insieme, che tolgono alle parole ogni tipo di speranza oltre a quella di rendere per un brevissimo tempo la realtà raccontabile, accosta ad un italiano tecnico, quasi da istruzioni per l’uso del mondo, un dialetto raro e umiliato nella sua provincialità; e l’ossesività che ne scaturisce sembra essere il rumore del vuoto che riempie tutto e tutti,anche se avviene con grande ironia,però. Entrambi anche come autori teatrali si mantengono fedeli a se stessi e hanno esperienza da attori, perciò sono perfettamente consapevoli della differenza tra parola scritta e detta. Esempi possibili ?

Improvisamente sto provando la sensazione di essere Eugenio Scalfari mentre scrive l’editoriale domenicale per la Repubblica, e, con tutto il rispetto, non è una bella sensazione, quindi tendo a terminare ,anche se mi rendo conto non abbia parlato del teatro di narrazione, altra piaga corrente al pari del HIV o della riapparsa, tubercolosi, che mette insieme paleolismo teatrale e avidità dei produttori, non abbia parlato della rapporto che abbiamo con l’immagine e,soprattutto, di quello che l’immagine ha con noi, ma tant’è, ne sono sicuro ne avrà parlato qualcun altro,probabilmente meglio di me. Mi limito a dire che forse l’unico rapporto possibile con il contemporaneo è racchiuso in una parola antica ma sempre nuova, comprensibile anche in molte forme dialettali: fregarsene. Fregarsene di capirlo troppo questo nostro tempo, perchè è fatto di tanti tempi già visti ,perchè presto ne seguirà un altro, perche solo quando sarà concluso lo riconosceremo; fregarsene di voler essere troppo come si pensa di dover essere per non apparire fuori luogo o obsoleti; ma, da esseri umani prima che da artisti, ascoltare tutto quello che esiste, vivo o morto che sia, dentro e fuori di noi, e cercare di usarlo quando qualcosa gli assomiglia, quando abbiamo bisogno di un esempio preciso per descrivere quello che accade, perchè solo così si è contemporaneamente contemporanei a tutti i presenti possibili, solo così ci si sente tra il passato e il futuro, il morto e il non ancora nato, che forse è l’unica verità del presente.

IL CENTRO DEL DISCORSO”

Di Francesco Farina

Werner carissimo,

infine mi ritrovo ad esprimermi nella forma scritta che è però forse quella a me più congeniale e scelgo te come interlocutore (con un escamotage che, restando in tema, potremmo definire drammaturgico) perché il contenuto epistolare meglio si adatta ad una comunicazione confidenziale, quale vorrei fosse questa mia.

In fondo, ho sempre pensato che la scrittura teatrale subisse le sorti analoghe di una lettera: uno scritto concepito per un unico destinatario che, grazie alla magia della scena, trova il modo di trasformarsi in un rito collettivo.

Ed è probabilmente proprio questo il punto di partenza, il centro del discorso.

Mi rendo conto che in un’epoca come la nostra, in cui la priorità di raggiungere il maggior numero di destinatari possibili è anteposta al valore intrinseco della comunicazione, il senso di una lettera possa risultare considerevolmente sminuito.

E tuttavia non ho mai pensato che il teatro possa essere considerato uno strumento di comunicazione allargata (stavo per scrivere “di massa”): collettivo, certamente, ma comunque ridimensionato ad una quantità che può essere contenuta nella panoramica di un unico sguardo.

Il teatro, in definitiva, non potrà mai avere la stessa destinazione di altri mezzi. Il che costituisce il suo limite ma anche la sua forza.

Cercare di manometterne la natura fino a costringerlo a somigliare a ciò che non è, mi pare la più diffusa delle aberrazioni contemporanee, cui pure sembrano volersi assoggettare quanti oggi del teatro continuano a fare il proprio mestiere (ma è davvero un mestiere?).

Ieri ho sentito parlare di fabbrichette teatrali dove si assemblano spettacolini non a pianta centrale e con un massimo di cinque attori.

Che tristezza.

Mi son ritrovato ad immaginare questi prodotti inscatolati in una pratica confezione, pronti ad essere distribuiti sul mercato…

Francamente, penso che il centro del discorso sia altrove. Un altrove che è inutile cercare nelle facili illusioni degli articoli in offerta speciale, così spesso messi in vetrina dai cartelloni dei nostri teatri (più o meno prestigiosi) nel tentativo di fare accorrere una cospicua fetta di pubblico, magari sottraendola alla torta del teatro più vicino.

Giocata sulle regole del mercato, io credo, la partita è persa in partenza. E non solo la partita del teatro, peraltro, come sta diventando sempre più evidente ormai nella cultura occidentale, dove il consumismo mostra ogni giorno di più la sua inadeguatezza nel soddisfare i bisogni umani.

Se c’è una strada da percorrere, non può che essere quella interiore. Guardarsi dentro è sicuramente illuminante, soprattutto quando fuori regna il caos.

E non è certo facile dare ascolto a questo altrove, assopito e dimenticato in qualche sottoscala della nostra coscienza, strattonata e messa a tacere dal clangore del sopravvivere contemporaneo.

Ma son sicuro che è da lì che sia necessario ripartire: non dal passato, né dal presente, né dal futuro. Perché, in un modo che non so spiegare, il passato, il presente ed il futuro sono già dentro di noi e aspettano solo di essere riconosciuti.

Insomma, caro Werner, credo che la possibile strada da percorrere sia analoga a quella di questo mio scritto che io ho destinato a te, non avendo la certezza della tua risoluzione finale di condividerlo. Ma, se lo stai facendo, hai già messo in moto un meccanismo antico come il mondo che, indipendentemente dai consensi e dalle disapprovazioni, può arrivare a rendere partecipigli altri delle riflessioni di chi – in pigiama e davanti ad una tastiera – sta cercando di superare un’indisposizione temporanea.

Dopotutto chi sceglie di esprimersi attraverso il teatro non lo fa in una condizione molto differente.

A presto, spero.

Francesco Farina

IL PROGETTO “VIETATO PARLARE DELL’AURORA”

PER IL KILOWATT FESTIVAL 2009,

A SANSEPOLCRO (AR)

Di Luca Ricci

Intervento per il seminario “Il centro del discorso” organizzato da Induma Teatro a Lecce presso Manifatture Knos il 6 e 7 dicembre 2008 , e per il sito www.ateatro.it in occasione del convegno “Buone pratiche” del 13 dicembre 2009 a Milano.

Il teatro dei gruppi giovani, emergenti, indipendenti, chiamateli come volete, non sta crescendo in modo sano, secondo me. Le condizioni di produzione attuali, la difficoltà nel piazzare date, le repliche troppo spesso proposte a incasso, che trasferiscono sulle spalle delle sole compagnie il rischio d’impresa che dovrebbe essere almeno diviso con chi gestisce gli spazi, tutti questi fattori, e molti altri ancora, rendono in molti casi improprio definire “lavoro” l’impegno di tanti giovani artisti e compagnie nel teatro.

Tutto questo non accade per disonestà di qualcuno, ma perché il teatro non sembra più uno strumento riconosciuto e necessario alla società. I soldi non ci sono, si dice. Lo Stato e le Regioni non fanno abbastanza. Verissimo. Ma vogliamo dirci anche che se ci fosse più pubblico avremmo meno bisogno dello Stato e, in generale, del finanziamento pubblico? E allora, secondo me, se non vogliamo arrenderci alla conclusione della nostra antistoricità, e non dobbiamo affatto arrenderci, dobbiamo tentare esperimenti di partecipazione della società alla vita e al lavoro del teatro, e pure esperimenti in cui il teatro accetta di confrontarsi di più di quanto non abbia fatto sinora con la vita sociale.

In tutti i casi, anche recentissimi, in cui il teatro ha cercato di costruire veri progetti di rapporto con la realtà circostante, si sono visti segnali, magari piccoli, di un’inversione di tendenza. È un lavoro enorme, faticosissimo, ma che si può fare. E non è tempo sottratto al lavoro artistico perché anche il lavoro di andare verso il mondo è artistico.

A questo proposito, metto al centro del discorso due progetti del “Kilowatt festival”, due cosiddette “buone pratiche”, che sono nate con lo scopo di creare una ricaduta sulla società circostante, anche per creare ulteriori necessità di un lavoro di questo tipo. E ne parlo non per dire: “guardate noi come siamo bravi”, ma perché questi due progetti siano discussi, anche polemicamente, se vorrete, ma soprattutto siano considerati esperimenti pilota, e quindi copiabili, riproducibili, con tutte le modificazioni e gli assestamenti del caso.

La “Selezione Visionari”

Il primo dei due progetti è la “Selezione Visionari” che Kilowatt rilancia anche per l’edizione 2009, per il terzo anno consecutivo. Se siete tra quelli che conoscono già di cosa si tratta, saltate al prossimo capitolo, perché in quanto scrivo qui non c’è niente di nuovo. Il progetto viene confermato così com’era.

E cioè: ogni anno, lanciamo un bando destinato alle giovani compagnie e ai nuovi artisti del teatro e della danza contemporanea. Chiediamo loro di mandarci un dvd di massimo 20 minuti con lo scopo di selezionare 6 spettacoli da invitare in una sezione del festival Kilowatt chiamata “Selezione Visionari”. La scelta dei 6 lavori da ospitare non la faccio io, come direttore artistico, ma la fa un gruppo di persone che risiedono in Valtiberina Toscana, che hanno la caratteristica di essere semplici spettatori di teatro e di non essere ad alcun titolo operatori teatrali. Tra loro ci sono due commesse del supermercato, un professore dell’istituto tecnico, una barista, un operaio, una studentessa di lingue straniere, due elettricisti, tre pensionati. Il gruppo è composto da circa 15-20 persone. Questo gruppo di spettatori–selezionatori si è dato il nome de “I Visionari”. Da gennaio a maggio, si incontrano almeno una sera a settimana, a volte due, per visionare tutto il materiale arrivato. Discutono, a volte litigano, poi arrivano alla selezione degli spettacoli che considerano migliori. Quando in luglio le compagnie arrivano al festival per presentare dal vivo il loro spettacolo completo (e vengono regolarmente pagate, il che non è un’ovvietà da specificare), vengono viste, oltre che dai Visionari e dal pubblico del festival, da un gruppo di operatori e critici teatrali detti “I Fiancheggiatori”. Tra questi, nel 2008 c’erano Rodolfo Sacchettini, Valeria Ottolenghi, Franco D’Ippolito, Lorenzo Donati, Graziano Graziani, Giuseppe Romanetti, Roberto Ricco, e altri. La mattina dopo la rappresentazione di ogni spettacolo c’è un incontro tra le compagnie che sono andate in scena, i Visionari e i Fiancheggiatori. Durante l’incontro si commentano i lavori visti la sera prima. I Fiancheggiatori, poi, mettono per scritto un “Documento di Visione” con un’analisi critica su tutti e 6 gli spettacoli della “Selezione Visionari”. Questo documento si può leggere sul sito www.kilowattfestival.it.

Da segnalare che tutte le circa 160 compagnie che partecipano alla selezione possono richiedere la “Scheda di Visione” compilata dai Visionari per ogni dvd che esaminano. Anche nel motivare il perché di un’esclusione, ci sembra, serve rispetto per il lavoro delle compagnie.

Un progetto come quello dei Visionari parte dalla domanda sul perché il pubblico abbia perso consuetudine col teatro. E, pur nella convinzione che il teatro è e resterà esperienza di nicchia, risponde con la convinzione che un pubblico maggiore possa “agganciarsi” al teatro d’innovazione contemporaneo. Quindi è qualcosa di più di una provocazione l’idea di sovvertire i criteri di organizzazione del rapporto tra il sistema dello spettacolo e il pubblico. È un’idea di politica culturale.

Il rischio è che, nel tempo, gli stessi Visionari diventino esperti, che cominciano ad adottare i criteri di un direttore artistico, che sotto la pressione delle eventuali critiche di futuri spettatori, o degli operatori, o delle compagnie escluse, finiscano per emulare il meccanismo di scelta degli esperti.

Per adesso il rischio è lontano: I Visionari si lasciano guidare da intuizioni spesso confuse nelle argomentazioni, ma chiarissime nel loro orientamento. Gli spettacoli che scelgono sono quelli che più si espongono a un rischio di relazione col pubblico.

Vietato parlare dell’aurora

(con saldi d’inizio stagione)

Per l’edizione 2009, Kilowatt destinerà alcuni sostegni economici alle nuove produzioni di 6 giovani compagnie, tra quelle che negli ultimi anni si sono già fatte notare per la qualità del loro lavoro. Qui si parla del “nuovo”, dunque, e non più del “nuovissimo”. Tre di queste compagnie sono già state scelte, e cioè CapoTrave, Gli Omini e Zaches (le ultime due emerse dalla Selezione Visionari del 2008). Altre tre compagnie dobbiamo ancora sceglierle. Presenteremo queste produzioni nella loro versione definitiva durante il festival 2009.

Nel frattempo, stiamo completando un censimento analitico di tutti gli spazi italiani che programmano il nuovo, e cioè che ospitano nei loro cartelloni compagnie giovani, indipendenti, d’innovazione. Sinora ne abbiamo individuati 170, tra grandi e piccoli festival, teatri comunali che ospitano specifici cartelloni dedicati al nuovo teatro e teatri nati dall’impresa privata, luoghi off e alternativi, nelle grandi città e nei paesi di provincia, in un territorio che va da Aosta a Gorizia, a Sassari, a Reggio Calabria. E già l’aver compiuto questa mappatura è un punto di partenza importante, perché prima ancora che sperare che le realtà dialoghino tra loro, bisogna che si conoscano.

Nei giorni del 29, 30 e 31 luglio 2009 inviteremo questi 170 operatori a Sansepolcro, a spese del festival Kilowatt. Lo scopo è che questi operatori partecipino a una due giorni di lavoro dal titolo “Vietato parlare dell’aurora” e che avrà per sottotitolo “Proposte concrete per il lavoro delle giovani compagnie italiane e dei teatri e festival che le programmano”.

L’incontro si propone un approccio molto pratico e fattivo, con gruppi di lavoro ridotti, seguiti da incontri plenari. Tra i temi della discussione le modalità con cui i singoli spazi operano (o non operano) la selezione del nuovo, la questione di quanto dura “il nuovo” in quanto tale, la considerazione che si ha del pubblico nel predisporre una programmazione, l’utilità o meno dei dvd, il budget stanziato da ogni teatro per la visione di spettacoli dal vivo, l’importanza o meno di una rassegna stampa nell’orientare una scelta, la proliferazione e la reale utilità di bandi, selezioni e concorsi, la questione del perché i festival che dovrebbero essere strumenti per la circuitazione diventano la circuitazione, il lavoro dei singoli spazi sulle residenze, i sostegni alla produzione, la questione del punto in cui finisce una co-produzione, i possibili e reale meccanismi di rete che si possono operare tra teatri e festival vicini tra loro, e altre questioni altrettanto concrete e attinenti.

Lo scopo è una prima vera mappa del panorama di chi programma teatro indipendente in Italia e delle pratiche già attivate a attivabili nel sistema teatrale nazionale per favorire concretamente il nuovo, nei fatti, dal basso, senza attendere i sostegni statali che tanto, nell’immediato, non ci saranno.

Durante i due giorni di convegno, poi, presenteremo gli spettacoli delle 6 coproduzioni del festival e, speriamo, anche i primi 20 minuti dei 4 vincitori del Premio Scenario 2009 e lanceremo la provocazione dei “Saldi d’inizio stagione” con i quali gli operatori di zone geograficamente contigue potranno mettersi d’accordo tra loro e acquistare per la stagione 2009-2010 uno stesso spettacolo, tra i 10 di cui sopra (i 6 co-prodotti dal festival e i 4 di Scenario), pagandone 2 date e avendone 3. Un espediente, è ovvio, ma concreto…

L’obiettivo è far partire da Kilowatt un progetto pilota, che rifletta su un’auto-riforma del “sistema teatro” con una proposta realistica che riguarda sì la produzione, ma anche la post-produzione e le strutture che devono accogliere la circuitazione degli spettacoli.

La crisi della rappresentazione

Di Manuela Cherubini

Cos’è la realtà?

Quello che osserviamo non è la vera natura, ma la natura soggetta al nostro metodo d’indagine”, dice Heisenberg. E’ molto probabile che nel pensare di essere oggettivi commettiamo grossi sbagli. Essendo l’Utopia qualcosa di non esistente per definizione, forse, la sua definizione risulterà più veritiera.

Uno degli elementi che più mi hanno fatto comprendere la crisi della rappresentazione nel mio paese è stata l’osservazione del macroscopio Argentina, un paese dove questa crisi ha avuto un punto di deflagrazione (gli accadimenti sanguinosi del dicembre 2001, la crisi economica conseguente), di fronte al quale la confusione fra realtà e apparenza ha raggiunto livelli parossistici. L’argentino non crede alla politica, ai mezzi di comunicazione, cerca sempre di formulare un’interpretazione degli accadimenti, d’individuare “cosa c’è sotto” a ciò che gli viene raccontato o mostrato. L’Argentina è un paese dove è possibile ridere di un presidente che ha derubato i propri cittadini, che ha subito processi per corruzione, frode fiscale. Un tedesco s’indignerebbe, chiederebbe ed otterrebbe all’istante le dimissioni di un cotal rappresentante. In altri paesi capita che venga rieletto (di chi sto parlando? Di Menem?). Ed è per questo, per esempio, che le opere di Rafael Spregelburd in alcuni paesi vengono lette come surreali, grottesche. Quando le leggo, non mi fanno mai quest’effetto.

Il teatro, come dice Mauricio Kartum, drammaturgo argentino anche lui, ma anche Guillermo Calderon, drammaturgo e regista cileno, non è poi qualcosa d’importante, ma ne parliamo perché lo facciamo. Quindi. Il sistema di rappresentazione teatrale, di fronte a questo spettatore incapace di credere più, come si pone?

Si può operare la tematizzazione, la denuncia, la rappresentazione diretta della crisi, della menzogna, della costruzione del reale: un meccanismo di dimostrazione di verità a priori. Oppure si può optare per una fedeltà assoluta al procedimento creativo, piuttosto che all’argomento, la messa in moto di un meccanismo ludico, che, nel migliore dei casi, può fornire verità a posteriori.

In dei paesi dove la crisi della rappresentazione è così profonda, la seconda opzione ha, non dico la capacità di cambiare la realtà (ripeto: il tearo è qualcosa di molto poco importante), ma quella di creare uno scambio poroso con il pubblico, un dialogo che non esclude coloro che non siano daccordo con le verità a priori: una maggiore incisività nella messa in moto del pensiero critico.

Un giorno, durante una lezione, José Sanchis Sinisterra ci raccontò di quando, durante il franchismo, con il suo gruppo, faceva teatro politico che lui stesso definisce “diretto”, denunciando tutto ciò che la dittatura voleva mantenere nel silenzio. Diceva di sentirsi convinto, allora, che il pubblico, uscito da queste rappresentazioni, avrebbe strappato le effigi della dittatura e sollevato la rivoluzione. Ciò non è mai accaduto. Nessuno di quegli spettacoli, come di tanti altri, è riuscito mai a far riflettere qualcuno che la pensasse in modo diverso, a svegliare i tanti che preferivano ignorare. Era piuttosto un teatro di consolazione, di sostegno morale per coloro che si ostinavano a resistere. Sinisterra ci disse che, quando se ne rese conto, cambiò radicalmente il suo modo di fare e riflettere sul teatro, di cui è parte anche lo spettatore. Il teatro doveva essere fedele a sé stesso ed in questo modo creare un dialogo con il suo spettatore ideale.

Molti uomini di teatro in Spagna e Sudamerica hanno fatto tesoro della sua riflessione e cercano di costruire un teatro che incida sulla realtà, servendosi della sua dichiarata menzogna. Attraverso l’“espansione del verosimile” (Spregelburd) questo teatro è in grado di attivare i nostri sensori di fronte alla presunta coerenza della realtà, investendo la fcition di una funzione politica.

IL CENTRO DEL DISCORSO”

Di Maria Luisa Mastrogiovanni -giornalista-direttora “Il Tacco d’Italia”

Leggo: “L’utopia che ci guida è di restituire al teatro, attraverso la creazione e la rappresentazione di buoni testi, un ruolo sociale, di farlo sentire come necessario non solo per gli artisti ma per la comunità in cui esso agisce. Se è vero che il teatro ha bisogno della comunità per esistere, è altrettanto vero che la comunità, la società hanno oggi più che mai bisogno del teatro nella sua più antica e nobile funzione: quella di luogo ove riconoscersi in quanto tali, ove ritrovare di nuovo il senso dell’idea stessa di “comunità”. Questa era infatti il ruolo del teatro alle sue origini, ai tempi della tragedia greca”.

Che cosa significa essere al centro del discorso e che cosa deve essere al centro del discorso? E chi mettere, al centro del discorso? E come motivare tale scelta e a chi motivarla? Infine come arrivarci, al centro del discorso?

La mia professione è fare domande.

Tra il blob informe delle informazioni, per lavoro cerco di mettervi ordine, di trovare un filo, soprattutto cerco di mettere in relazione ciò che apparentemente non lo è.

Da questo cortocircuito, quest’attrito, spesso nasce la notizia.

Poiché la notizia non è mia, è del lettore (non a caso si dice “dare” una notizia. Forse si dovrebbe dire “restituire”, pensando che tutte le notizie non date siano un furto, una sottrazione di qualcosa di dovuto), e poiché non essendo mia devo “restituirla”, appena mi imbatto in essa, spesso do notizie che il lettore forse non vorrebbe leggere. Il mio giornalismo ha un “ruolo sociale” che, appena interpretato viene già ripudiato dal suo stesso mandante e beneficiario, il lettore.

Quindi interpreto un ruolo tragico, in senso greco.

Ma la scelta è stata fatta da me a monte: avendo scelto di fare giornalismo d’inchiesta ho deciso, a monte, che mi sarei fatta guidare dalle notizie, e che mai sarebbe successo il contrario, cioè guidare, manipolare le notizie.

Che cosa ha a che vedere questo con il “centro del discorso”? Che cosa, con il teatro?

Sono un interprete della realtà, come un attore. Cerco la verosimiglianza, non la verità, perché, essendo un interprete, so che la verità non esiste, scompare nel momento in cui viene interpretata.

Torno alle mie domande: se un interprete vuole che il suo pezzo abbia un “ruolo sociale”, che cosa deve guidarlo nella scelta di che cosa interpretare?

Per me, interprete di notizie derivate da aggregati di notizie, scrivere ha senso solo se ho trovato il senso, la relazione tra più pezzetti di verità. Scrivo nel momento in cui la ricerca è finita e appena riconosco in quella relazione la verosimiglianza. Appena comincio a scrivere va in scena la tragicità del mio ruolo. Sono costretta a scrivere cose che non vorrei, perché è la notizia ad imporsi.

E’ necessario perciò eliminare qualunque impedimento che si frapponga fra me, la notizia, il lettore. Per me questo significa essere completamente libera da vincoli economici derivanti dalla pubblicità, soprattutto quella politica.

Ma se è il re a finanziare i teatri, come si fa a rappresentare qualcosa di sgradito al re?

Se è il re a finanziare i teatri, la scelta di che cosa rappresentare non sarà condizionata a monte?

Se so che la “finzione” del teatro non mi sta svelando la verità della realtà, ma mi sta allontanando da essa, mi sta dando una “notizia manipolata”, come faccio a riconoscerne il “ruolo sociale”?

Il centro del discorso sul ruolo sociale del teatro credo che oggi debba partire dal coraggio della verosimiglianza. Credo che la verosimiglianza debba essere al centro del discorso.

INCONTRO SULLA DRAMMATURGIA ITALIANA

IL CENTRO DEL DISCORSO”

Di Massimiliano Civica

Cari Amici,

comincio con una confessione di impotenza: non sono in grado di ragionare su questioni quali “è necessaria la Drammaturgia? Esiste una Drammaturgia contemporanea? Che cos’è la Drammaturgia?” o similari. Mi accontento di dire che esiste qualcosa che chiamiamo “Drammaturgia”, che sappiamo intuitivamente cos’è, e che, in qualche modo, ne riconosciamo la necessità e l’importanza. Fine.

Vista la mia pochezza sull’Impianto Teorico Generale spero di recuperare un po’ di credibilità con poche osservazioni di carattere pragmatico ed artigianale. Le elenco sinteticamente in due punti:

1) Credo che per scrivere del buon teatro l’autore debba conoscere e frequentare gli attori per cui va a scrivere un testo, lo spazio in cui verrà recitato, e, almeno un po’, la comunità del pubblico davanti a cui verrà messo in scena. Il circuito autore-attori-spazio-pubblico (nel reciproco rispecchiarsi ed influenzarsi degli elementi in gioco) è alla base di tutte le grandi drammaturgie della storia: teatro greco, teatro elisabettiano, teatro naturalistico ecc.

Mi riesce difficile credere che uno scrittore, nella presunta onnipotenza creativa della sua solitudine – senza essere costretto a scrivere su/per degli attori, uno spazio ed un pubblico – sia in grado di produrre un buon copione.

Forse non c’è molta buona drammaturgia contemporanea perché non c’è più una comunità del pubblico riconoscibile (all’autore manca quindi il bersaglio) e perché l’autore non sa chi interpreterà i suoi testi (gli manca una parte della sua “materia”).

Alcuni dei migliori copioni prodotti ultimamente sono di attori che si scrivono i propri spettacoli “a solo”: riunendo in un’unica persona la funzione di autore ed attore forse riescono ad ottimizzare le potenzialità della scrittura teatrale.

2) Il Teatro inizia là dove finiscono l’epica, il racconto e le storie. La scrittura teatrale non ha nulla a che fare con la letteratura, la poesia o la filosofia (solo i geni fuori misura modello Shakespeare riescono a fare teatro nonostante la loro forza poetica e letteraria). Il testo teatrale è un copione, un materiale incompleto e parziale che viene inverato solo nella presenza carnale dell’attore sulla scena. Mi concedo un esempio stupido: la scrittura musicale è molto più definita, precisa e vincolante della scrittura scenica, ma nessuno di noi si accontenterebbe di leggere uno spartito musicale, tutti lo vogliamo sentire eseguito dai musicisti: perché a Teatro non dovrebbe essere lo stesso? Un testo teatrale non messo in scena è come una partitura musicale che rimane sulla carta.

La scrittura teatrale si dipana per azioni, non dovrebbe contenere nessun commento, spiegazione o riflessione indiretta. L’attore ha bisogno non di belle parole o bei contenuti, ma di una serie di azioni (quindi di volontà e desideri) che guidino il suo stare in scena. Un buon scrittore è sovente un pessimo drammaturgo. Ci sono delle competenze, delle specificità dell’arte della drammaturgia che troppo spesso vengono misconosciute. Il discorso sarebbe troppo lungo e pedante da svolgere per scritto, voglio solo ricordare un paio di esempi. I contenuti dei testi di Shakespeare ed Eschilo sono in gran parte determinati ed influenzati dall’edificio scenico e dalle convenzioni teatrali imperanti nei loro tempi: la tecnica degli ingressi e delle uscite di scena, lo spazio vuoto del palco, il numero prefissato di attori da utilizzare, temi spesso svolti su commissione sono i parametri strutturanti di una scrittura figlia della scena, che oggi passa invece per il parto creativo di menti poetiche che agiscono in una assoluta libertà irrelata.

Becket scriveva i suoi testi in francese, lingua che non conosceva bene, perché così era costretto ad una scrittura essenziale, banale e basata sulla formula soggetto-verbo-complemento oggetto: la formula dell’azione teatrale.

Spero di aver fornito qualche utile spunto di riflessione e mi scuso per l’apoditticità e la parzialità che uno scritto breve come questo può avere.

NOTE – MOLTO SOMMARIE E ARBITRARIE – A MARGINE DELL’INCONTRO SULLA DRAMMATURGIA ITALIANA

IL CENTRO DEL DISCORSO”

Di Nicola Viesti

Il teatro italiano non ha bisogno di più drammaturghi. Quelli in circolazione sono ormai legione – ne fa fede anche il numero esorbitante di partecipanti ad ogni premio di drammaturgia – e quindi il problema non riguarda la produzione di una scrittura scenica ma piuttosto una sua maggiore qualità e la possibilità che essa possa acquisire adeguata visibilità in produzioni di notevole impegno ad opera dei grandi teatri. Il vero problema è dunque quello di una scarsa attenzione verso gli autori di oggi – la necessità di tematiche che rispecchino la contemporaneità è solo da considerarsi in seconda battuta – preferendo i teatri cosiddetti di tradizione quasi sempre il solito ed ormai noioso ricorso ai “sempreverdi” nell’illusione che Shakespeare o Pirandello costituiscano garanzia di successo. Inoltre il teatro italiano è da decenni un teatro di regia che preferibilmente esercita la propria creatività rileggendo i classici; l’abbordare un nuovo testo e, soprattutto, confrontarsi con un nuovo scrittore vivo, vegeto, pensante e, soprattutto, in vena di dire la sua viene – erroneamente – ritenuta una pratica che può sminuire la supremazia del regista. Si è così creato un parallelismo tra il rifiuto di una drammaturgia contemporanea e l’indubitabile “vecchiaia” del pubblico ( Goldoni, Shakespeare o Pirandello hanno, tra l’altro, il vantaggio di essere conosciuti nelle trame e negli intrecci permettendo un sereno appisolarsi di spettatori che al risveglio non hanno difficoltà a riagganciarsi a ciò che avviene in scena ); la scelta di testi nuovi porterebbe probabilmente ad un necessario ricambio generazionale, problema che esiste ed è di una certa gravità. Salta agli occhi di tutti che nelle nostre sale, soprattutto di tradizione, l’età media di chi le affolla è parecchio alta e non ci vuole molto a preconizzare che tra qualche anno andranno praticamente deserte. Certo non possono essere solo i nuovi autori a portare i giovani ad interessarsi del teatro ma un piccolo aiuto probabilmente possono sicuramente darlo. Bisognerebbe dunque concorrere ad affermare nuovi classici contemporanei cercando con oculatezza di sperimentare nuovi percorsi. Bisognerebbe chiamare in causa la critica ( ormai ignorata dai tradizionali mezzi di comunicazione deve rivedere il proprio ruolo accettando soprattutto di comunicare tramite internet e, mettendosi in gioco, abbandonare un pensiero esercitato su prodotti artistici finiti preferendo essere punto di riferimento in senso lato per artisti e produttori ); i grandi teatri ( assoluta disponibilità produttiva verso il nuovo simile a quella mostrata dagli stabili di innovazione e dalla realtà più piccole ); gli artisti ( meno pregiudizi, più ricerca e rischio ); il pubblico ( meno disimpegno e più partecipazione ). Delle istituzioni – sempre meno disponibili ad investire e sempre più ignoranti – è giunto il momento di farne gradatamente a meno e per quanto riguarda i tradizionali mezzi di comunicazione – ad eccezione, lo ripetiamo, di internet le cui possibilità andrebbero sfruttate al massimo – è indubitabile riscontrare come siano, in maniera sconfortante, appiattiti sul più vieto modello televisivo ( un’ovvietà purtroppo reale ).

Negli ultimi tempi cresce l’interesse e l’attenzione per una parola contemporanea ma, di solito, questa parola la si cerca altrove, quella di scrittori stranieri di una qualche notorietà che – chissà perché – sembrano migliori dei nostri e quindi meritevoli di essere proposti al pubblico. Analogamente è all’estero che la drammaturgia italiana consegue i giusti riconoscimenti : una drammaturgia che spesso passa non necessariamente dalla parola ma dai corpi o si affida ad una parola elaborata tenendo presente i linguaggi locali, composizioni apparentemente “dialettali“ ma in realtà estremamente elaborate che riescono a produrre un tipico miracolo del teatro cioè quello di partire dal particolare per giungere all’universale, opere fortemente marchiate dall’humus “regionale” di appartenenza che riescono sorprendentemente a parlare al mondo. Questo della “scrittura regionalizzata” è un fenomeno molto interessante che svela autori grandissimi impegnati non solo sull’equilibrio ritmico della rappresentazione, sulla sapienza compositiva ma che si immergono in un lavoro di ricerca che rivela uno studio profondo delle origini e della tradizioni. Una pratica che lungi dall’essere “archeologica” è squisitamente artistica e i cui risultati diventano specchio del moderno e delle sue contraddizioni e lacerazioni.

Gli scarni testi di Emma Dante in un palermitano non sempre ostico esigono la presenza di corpi a loro volta forniti di una propria capacità di comunicare. La messa in scena si sviluppa per contrasti che possono scatenarsi da un testo “digerito” dagli interpreti che se ne fanno “testimoni”. Il teatro così reclama una drammaturgia che va oltre la letteratura e che deve fare i conti con un dato rituale molto forte non necessariamente legato all’immediata comprensione delle parole ma che trae linfa soprattutto dal loro suono. L’opera scritta – nella sua accezione letteraria – ha una sua forza autonoma che la rappresentazione amplifica incuneandola nella carne e nella voce degli interpreti. Insomma un testo che letto può parlare alla ragione ed al cuore ma rappresentato deve colpire ai visceri . Clamoroso il caso di Mimmo Borrelli , giovane drammaturgo campano che con i suoi lavori – ‘Nzularchia e ‘A sciaveca – si impone come figura di autore puro lasciando libertà di interpretazione al regista. Il napoletano è una lingua a tutti gli effetti e Borrelli ne penetra le profondità e crea straordinari esempi di drammaturgia complessa. Infatti utilizza l’antico dialetto flegreo ma a volte lo imbastardisce con l’invenzione di nuove parole o lo contamina in vario modo: un po’ sull’esempio della scrittura di un altro grandissimo autore come Enzo Moscato ( e a proposito di Moscato che ormai scrive solo per sé stesso perché ancora a nessuno è venuto in mente di riprendere i suoi formidabili primi drammi?). Il risultato è un impasto testuale che sfiora letteralmente l’incomprensibilità ma di cui per misteriosa alchimia – ancora propria della scena – lo spettatore coglie appieno la forza e la straordinarietà, avvinto letteralmente da una fascinazione assoluta. Merito anche delle messe in scena ad opera di due registi come Cerciello e Iodice che hanno saputo rendere in pieno lo spirito magico e la “bellezza” dei testi.

Tantissimi sono gli autori che scrivono, interpretano e dirigono i propri testi creando anche delle proprie compagnie. E’ un fenomeno molto diffuso che spesso – non esclusivamente – si identifica in uno stile narrativo. Importante – ormai storicizzato e caso quasi unico – il gruppo di potenti drammi composti da Annibale Ruccello in un napoletano per certi versi “corrente” ma non per questo meno coinvolgente ed affascinante. Oggi, dopo la scomparsa dell’autore, vero classico moderno capace di attirare interesse ed attenzione da parte di molteplici artisti e da parte del pubblico. Non solo dialetti però in palcoscenico ma anche testi in italiano come, ad esempio, quelli di Fausto Paravidino che riscuote curiosità internazionale e del giovane Stefano Massini che compone e spesso dirige opere di solida fattura pari all’impegno delle tematiche messe in campo. E all’elenco – assolutamente sommario e arbitrario che volutamente ignora, tra gli altri, i partecipanti al convegno – aggiungerei la discussa coppia Ricci&Forte, camaleontica e mutante che dalla freddezza – contenente però il fuoco di segreti nascosti – di una scrittura quasi nordica sta approdando ad un linguaggio ispirato al Gadda che mescola gergo dialettale a impeti lirici. Una drammaturgia molto costruita, attenta alle mode, immersa nel contemporaneo e scaltra nelle citazioni, emotivamente forte ma pure artefatta, che è un po’ lo specchio dei tempi che viviamo.

IL CENTRO DEL DISCORSO”

Di Paolo Musio

Dico quello che è necessario per me. Partire dal silenzio, il silenzio è per me al centro del discorso. Lo ascolto immerso come sono nel frastuono. A volte è un silenzio vuoto e disperante. Altre volte è carico di vita cioè di infinite possibilità. Un luogo cui tornare, cui tornerò. Silenzio prima e dopo le parole, tra e dentro le parole. Se mi ci metto lo trovo ovunque e lui mi trova ovunque. Gli faccio posto nel respiro, nel cranio, certo nell’orecchio. Lo accolgo: un cavallo di Troia da cui saltano fuori dapprima ogni genere di inganni, idee soprattutto e frasi spesso tutte ricoperte, caramellate di luoghi comuni e banalità. Cerco un varco e a tentoni mi sposto in una stanza più interna del silenzio. Là le idee non contano e non conta la storia e la Storia sembra un film muto e ogni evento si offre allo sguardo nel suo affiorare, svolgersi e finire. Eventi come una foglia che cade. Da questa stanza sono attratto in una ancora più interna, quella in cui il silenzio sembra vincere. Se vado là dovrò davvero lottare per strappare al silenzio le parole. Agonizzare nel silenzio. La lotta – agonia genera il movimento cieco che a sua volta origina le immagini ecc. fino alle parole, parole schiuma, parole specchi, parole vento, parole sacco, parole frecce, parole acqua, parole gas, parole muffa, parole mosca, parole cenere, parole luce, parole gong, parole ghiaccio, parole merda, parole scimmia, parole virus, parole stelle, parole incubo, parole seme, parole tram, parole fischio, parole palo, parole buco, parole osso, parole fuoco, parole fondo, parole vino, parole ombra, parole sangue, ecc. La qualità del silenzio da cui parte la scrittura credo che sia più alta quanto più forte è la necessità di rompere il silenzio con parole, gesti ed azioni meditate con cura nell’ombra, come seguendo un piano criminale. Il silenzio che precede l’agguato, quello che segue quando la parola giace ormai scritta come “morto orale”. Scrivo per la memoria della lotta, per ricordare la vita vissuta lottando col silenzio mentre scrivo. Rileggo e le parole stanno come soldati morti in strane posizioni, caduti in atto di portare il colpo, pararlo o fuggire, il nemico la morte, e io mi aggiro tra le parole come un sopravvissuto dopo una battaglia di cui sono responsabile. Ci vuole responsabilità e senso del ridicolo e sensibilità ecologica nello scrivere. Scrivere senza responsabilità devasta l’ambiente e porta parole morte per sempre come rifiuti tossici. Scrivere in modo responsabile allineando cadaveri di senso significa credere la strage necessaria, compiuta per una causa, altrimenti perché bloccare per sempre un flusso ininterrotto di emozioni immagini in frasi? Ci parliamo all’orecchio, gridiamo, gesticoliamo, facciamo la faccia feroce e quella di chi la sa lunga, ci mettiamo in posa e quando scattano la foto siamo sempre ad occhi chiusi, anche quando ce l’abbiamo messa tutta per tenerli aperti. Tutta questa attività, i convegni, tutta questa energia contro il silenzio perché? Quale territorio vogliamo conquistare se non il nostro presente, per condividerne con i nostri contemporanei l’inafferrabile estensione? Questo il centro del discorso della responsabilità di scrivere vibrando colpi al silenzio nel presente. Le tracce della lotta nelle parole, matrici di un sempre nuovo presente. Poi ognuno scrive quello che gli pare. Sono a Torino, fuori nevica. Ogni volta che nevica, fuori c’è un bambino che vede la neve per la prima volta. Ciao.

Il testo ed il contesto

Lo specifico “Teatro per Ragazzi”

Di Pietro Minniti

Il teatro per ragazzi è un settore di sperimentazione specifica nell’ampia e differenziata pratica del teatro di ricerca italiano. Ciò che caratterizza il teatro per ragazzi è l’aver individuato nell’infanzia il suo particolare pubblico di riferimento e averlo poi allargato alla nozione più ampia di gioventù (ecco perché “teatro per ragazzi”, più raramente “teatro per le nuove generazioni”, e mai “teatro per bambini”), decidendo di interloquire con una platea “liquida” per eccellenza, sempre cioè rapidamente rinnovantesi e sempre naturalmente vocata all’innovazione: “teatro di ricerca per ragazzi”, dunque.

L’attenzione al pubblico giovane ha comportato l’adozione diffusa di un linguaggio, di una lingua e di uno stile del tutto inediti in precedenza, pur nelle differenti poetiche dei singoli artisti. Comune è l’enfasi sulla componente non verbale della comunicazione, il più delle volte a discapito di una drammaturgia in senso proprio, poco attenta cioè all’intreccio e più aperta verso una narratività asintattica: la storia, anche quando esistente, non può seguire la logica lineare propria dell’adulto, né si affida semplicemente alla parola.

Nel teatro di ricerca puro il rifiuto della consequenzialità discorsiva vuole esprimere innanzitutto la presa di distanza, spesso opponente e tutta genuinamente politica, nei confronti della comunicazione teatrale “classica” percepita come stereotipata e vuota di contenuto genuino. Nello specifico del teatro di ricerca per ragazzi quel rifiuto è semplicemente e strettamente motivato dall’esigenza puramente dialogica di mantenere il contatto con un destinatario che si riconosce dotato di competenza di analisi e di pensiero caratteristici: tale metodo diventava storicamente provocatorio solo nell’effetto di un’indubbia rottura con la tradizione.

Dico “esigenza di mantenere il contatto” non solo perché faccio riferimento alla relativamente breve capacità attentiva propria del piccolo spettatore, in grado di condizionare la durata degli allestimenti, la velocità del montaggio fra le scene e la spettacolarità di alcune scelte registiche, volte proprio a stimolare, conquistare, mantenere e riacquistare l’attenzione dell’ascoltatore. Mi riferisco soprattutto al lavoro di studio, ricerca e analisi contenutistica e metodologica assai frequentemente condotto dagli operatori del teatro per ragazzi con gruppi di fanciulli prima dell’avvio dell’allestimento effettivo. Quando il periodo di prove è preceduto dall’attività di laboratorio con i bambini, sono proprio i futuri spettatori a suggerire, proporre, predeterminare il testo. O meglio a fornire i materiali sui quali si eserciterà l’elaborazione drammaturgica del teatrante adulto. È quella che Mafra Gagliardi chiama “vocazione antropologica del teatro per ragazzi”: il desiderio di soddisfare i bisogni profondi e diffusi di comunicazione, conoscenza, gioco e socialità di un popolo bambino, sentito come parte integrante della società.

Ma in che cosa consiste il “testo” specifico del teatro per ragazzi?

Riconosciuto il primato dei sistemi non verbali nella comunicazione umana ed infantile in particolare, il teatro per ragazzi ha ricercato una scrittura che fosse radicalmente drammaturgica. Essa, infatti, non vuole limitarsi ad in-scrivere su una qualche scena una qualche azione (dramma, appunto), ma deve saper esaltare nel suo diventare lingua, quanto di alternativo alla parola può offrire la relazione teatrale: il centro del discorso è per il teatro per ragazzi ogni aspetto altro della comunicazione artistica e più ampiamente umana.

Il teatro per ragazzi si è inventato proprio inventando un suo proprio linguaggio, che sin dalle origini non poteva che essere diverso da ogni stereotipo esistente, l’ha esaltato, lo ha esemplificato, inizialmente in maniera antagonistica non solo ad un certo teatro per l’infanzia di vecchio stampo, ma soprattutto ad una certa idea di educazione e di didattica per l’infanzia. Così l’utopia di una specularità vera con la sala ha esaltato la dimensione ludica della teatralità, permettendo al linguaggio del teatro di diventare quanto mai ibrido e composito. In funzione propriamente narrativa, quindi pienamente drammaturgica, ecco l’utilizzo sempre innovativo dello spazio scenico, delle luci, dei suoni, dei silenzi, dei costumi e di ogni altro elemento di cui sia possibile esaltare la natura di segno apportatore di informazioni essenziali all’interno della narrazione spettacolare. Per non parlare della con-fusione all’interno di una stessa rappresentazione di generi espressivi e forme artistiche differenti, anche intername al teatro: lavoro d’attore, narrazione, acrobatica, commedia dell’arte, danza, ecc. Il tutto senza evidente soluzione di continuità con il teatro di ricerca pura.

Più di quanto accada altrove, il testo del teatro per ragazzi non è mai solo nella parola, anzi quando questa è presente nella scrittura della scena, essa è forse l’elemento meno significativo e meno capace di comunicare il fatto teatrale e la storia della sua composizione. La drammaturgia del teatro per ragazzi risulta essenzialmente una scrittura di corpi, gesti, suoni, silenzi, colori ecc.

Naturalmente questo non ha impedito che alcuni artisti si indirizzassero verso una sperimentazione ardita che, come in un mondo alla rovescia, si è caratterizzata per la predominanza del testo parlato nella messinscena. Ma si tratta comunque di casi che si possono definire isolati e perciò spesso molto interessanti.

Di cosa ha parlato e parla il teatro per ragazzi?

Del suo pubblico, naturalmente. Proprio nel rispetto di quella specularità tra platea e palco che caratterizza il rapporto tra l’artista ed il suo interlocutore, nel teatro come in ogni altro linguaggio creativo, il teatro per i ragazzi non può che raccontare l’universo infantile, il suo immaginario e la sua realtà. Tavoli di lavoro per elezione sono le fiabe e le favole di ogni tempo e luogo: trasposte, interpretate, riscritte, re-inventate. Simile sorte tocca alle opere letterarie per l’infanzia, ma molto abbondanti sono gli spettacoli aventi un soggetto originale: il mondo interiore del bambino, l’identità di genere, l’amicizia. Talvolta il tema si tinge di impegno sociale: il rapporto col territorio, il rispetto per l’ambiente, il rapporto con la famiglia, le diversità culturali. O tenta coraggiosamente di portare al pubblico infantile informazioni o suggestioni ispirate a fatti di cronaca o argomenti di attualità.

Nel rivolgersi al pubblico dei piccoli il teatro per ragazzi, così come ha voluto delinearsi sin dalle sue origini, ha assunto tipicamente un atteggiamento improntato alla dialettica ed all’argomentatività, un orientamento non conformistico, provocatoriamente lontano da qualsivoglia cliché, sempre scomodamente etico, comunque irrinunciabilmente critico, genuinamente politico, qualcuno direbbe addirittura politicamente scorretto (Renata Molinari, NdA).

Con caparbietà il teatro per ragazzi ha saputo storicamente crearsi un’identità fortissima, estremamente credibile ed affidabile nelle differenze poetiche ed espressive: in pochi anni e con tanto lavoro e pazienza, quello delle matinéé è diventato un circuito più esteso, ramificato, differenziato e solido rispetto a quello del teatro di ricerca pura. Il passo da qui a diventare un circuito di distribuzione e, quindi, un mercato è stato breve, con tutte le distorsioni che il mercato comporta, soprattutto quando si accompagna alla cultura.

Qui finisce l’avventura del Signor Bonaventura che rinuncia al primo ardore e s’accontenta del milione”. Mi si perdoni la perifrasi di tofaniana memoria. E preciso che il riferimento al milione è chiaramente un’iperbole.

Forte di un meritatissimo successo gestionale, organizzativo e distributivo, dalla seconda metà degli anni ’80 il teatro per ragazzi si è impegnato a mantenere la propria posizione di forza all’interno del circuito culturale, dimostrandosi eccellente attore in quell’eccitante palcoscenico per pochi eletti che è l’economia della cultura. E questo naturalmente si è riflettuto su forme e contenuti della creazione (pardòn: produzione) artistica. In troppi casi al fervore creativo “avanguardistico” delle origini si è sostituito un atteggiamento reazionario, conservatore nelle pratiche, nelle poetiche e nelle tecniche, vigliacco nei contenuti, così concentrato sulla forma da essere lezioso e barocco, assoggettato all’estetica dopo aver sotterrato ogni motivazione ed intenzione etica.

Si rifletta su un elemento caratterizzante il mercato del teatro ragazzi: quello che si potrebbe marxianamente chiamare “l’alienazione produzione/consumo”. Ho accennato alla buona prassi, tutt’altro che rara, di far precedere le prove di un nuovo spettacolo da un periodo di laboratorio operato dal gruppo artistico direttamente con alcuni bambini. Emittente e destinatario cooperano così alla formazione testo/messaggio e ne delineano il contenuto ed il codice: sarà l’opera dell’artista a strutturarlo e a definirlo, a trasformarlo cioè in linguaggio. La trasmissione vera e propria si avrà in un momento successivo, a creazione ultimata: il giorno della rappresentazione il pubblico/destinatario/bambino riceve il messaggio/spettacolo che aveva contribuito a creare. La visione, così intesa è un atto molto più vicino ad un feedback, che ad una semplice ricezione.

Cosa accade se a questo modello comunicativo si sovrappone (o sarebbe meglio dire si sostituisce) la logica del mercato? Come si sa, il bambino/destinatario/consumatore finale non è un soggetto autonomo, non ha capacità decisionale indipendente, né può direttamente acquistare prodotti, beni e servizi che, infatti, gli vengono forniti dagli adulti di riferimento. Nel nostro specifico il prodotto spettacolo viene scelto per l’acquisto dall’adulto/insegnante: è a lui che deve essere presentato ed auspicabilmente piacere. Il rischio tutt’altro che remoto è che l’attenzione creativa sia tutta votata all’aspettativa dell’adulto committente anziché alle esigenze del destinatario per vocazione: il bambino.

Il paradosso è che il teatro per ragazzi pare troppo spesso essere fatto per piacere agli adulti. Il teatro per ragazzi nasce connotandosi come epico in senso brechtiano, ma col passare degli anni il patto comunicativo fondato sul cointeressamento del destinatario bambino sin dalla prima fase di elaborazione dello spettacolo viene progressivamente tradito per allettare il committente/adulto. Il risultato nei contenuti della forma-spettacolo è la tendenza alla riproposizione di una visione stereotipata del mondo e dell’immaginario infantile in direzione adultocentrica. Il linguaggio cerca di evitare sincere sperimentazioni espressive, per non rischiare di disorientare un ormai affezionato séguito di maestre, in verità non sempre troppo competenti, che si preferisce viziare fornendo loro una programmazione fitta di titoli arciriconoscibili e rassicuranti. Troppo raramente, ad esempio, il teatro per ragazzi contemporaneo ardisce di trattare i temi sociali in quella chiave provocatoriamente etica che lo aveva caratterizzato in origine: esprimere un’opinione rischia di indispettire l’attesa di conferme di un pubblico di consumatori sempre più routinari.

Anzi, per non rischiare di allontanarsi troppo dai potenziali acquirenti ormai narcotizzati dalla televisione, il molto teatro per ragazzi consacra la propria inerzia e accetta di farsi contaminare dal linguaggio televisivo. In ormai troppi casi un certo teatro per ragazzi ha finito con l’accettare la presenza sulla scena di tecniche, tecnologie, stili espressivi, temi ed altri orrori propri del piccolo schermo, arrivando a sostituire gli attori in carne ed ossa con attori virtuali, rinunciando alla corporeità connaturata al linguaggio teatrale!

Altrove, pur di distrarre dalla pochezza dei contenuti, tenta in ogni modo di concentrarsi sulla cura dell’estetica formale in una delirante esaltazione del bello e dell’apparire, che così poco ha a che fare con la psicologia infantile.

Non dico che questa sia la sola realtà, ma è certo che questa sia molto più che una triste linea di tendenza.

Ha quindi senso parlare ancora di drammaturgia? Ha senso ancora parlare di specifico del teatro per ragazzi?

Naturalmente sì, se ha senso continuare a parlare di teatro. Verrebbe da dire che se il teatro per ragazzi fosse morto, si potrebbe almeno auspicare ed operare una sua rinascita. Tuttavia il teatro per ragazzi è ancora vivo, ma per sincera ammissione degli stessi operatori del settore non gode di buona salute.

Cosa fare allora? Credo sia necessario mettere da parte le conquiste ideologiche vere o presunte degli ultimi decenni, per ricercare in chiave attuale le motivazioni (sempre ideologiche) delle origini. Mettere da parte le lusinghe del mercato e l’ansia da “posizione dominante” per far emergere le urgenze di genuino ripensamento e critica della realtà contigente alla base della creazione artistica. Occorre tornare a dare attenzione all’opera e togliere l’enfasi dal prodotto. Pare strano voler riconoscere in un tanto invocato, ma ancora non realizzato ricambio generazionale l’unica vera possibilità di sopravvivenza del “sistema teatro per ragazzi”, ormai soffocato dall’egemonia dei suoi stessi imperituri originatori, fisiologicamente troppo spesso incapaci di andare oltre le loro innegabili glorie passate. Solo l’apporto creativo di nuove leve di validi artisti indipendenti dalle logiche del mercato potrà fornire occasioni di ripensamento e ridisegnamento di quei criteri e stili compositivi che possono efficacemente dialogare con nuove generazioni in tempi sempre più rapidamente in trasformazione. Leggere con sensibilità modernissime la realtà contemporanea mediante strumenti sempre necessariamente artigianali, credo debba essere il comandamento che deve caratterizzare quel linguaggio creativo che per vocazione non può prescindere da un sano rapporto col futuro: il teatro di ricerca per le nuove generazioni.

OGGI CONTEMPORANEAMENTE

Perché è quasi impossibile dire “oggi” tanto è privo di speranza il mio rapporto con l’“oggi”, perché questo Oggi lo posso passare solo con una tremenda ango­scia e una fretta pazzesca, e scrivere perché si dovrebbe distruggere subito quello che viene scritto sull’Oggi

Ingeborg Bachmann

Di Renzo Martinelli _ Teatro i

Vorremmo parlare di Contemporaneo, ma potrebbe essere una banalità. Una parola di cui tutti ormai ci riempiamo la bocca, una di quelle parole che hanno perso di significato perché troppo usate, perché abusate.

Arte contemporanea. Teatro contemporaneo. Dove contemporaneo diventa tutto ciò che è nato e a volte morto, in un lasso di tempo di almeno ottant’anni e di cui l’“oggi” è sempre il termine di riferimento, oppure dove contemporaneo non è che parola generica legata a una modalità di esperire l’arte, e in particolare la forma teatrale.

Ingeborg Bachmann scriveva che non è possibile parlare dell’oggi, non è possibile nemmeno nominarlo.

L’oggi è il momento fuori del tempo, l’utopia etica e poetica dell’istante: “il tempo non è oggi” “il tempo non c’è più”. L’oggi, come l’istante che si sottrae al tempo, si radicalizza nell’adesso.

Noi vogliamo dire che parlare di contemporaneo è inutile, impossibile, il contemporaneo deve essere fatto accadere. Compito dell’arte deve essere fermare il tempo, non immobilizzarlo, né raggelarlo in un utopica ricerca dell’artisticamente giusto e bello, ma dilatarlo in uno spazio che diventi luogo della creazione e dell’incontro.

Il nostro lavoro è sempre nato nell’incontro. Abbiamo incontrato testi diversi, autori diversi, e abbiamo cercato di incontrarli al presente. Di unire il nostro e il loro tempo e di farli accadere insieme, al di là delle teorie, in una prassi che ha unito il nostro fare teatro e quello degli artisti che vi hanno partecipato.

In questo senso per noi essere una residenza significa condividere il nostro teatro e il nostro tempo con quello di altri e far sì l’unico “contemporaneo” al quale vogliamo riferirci torni ad essere concetto profondo, nel quale si ricalca un legame continuo e radicato con tutto ciò che è attuale, che si attua, appunto, nel tempo in cui viviamo, contemporaneamente al nostro esistere

Lettere dal Reggimento

San Casciano, Firenze- settembre ’07

Di Roberto Corradino

La parola è ciò in cui l’uomo si presenta, prima di qualsiasi gesto e oltre ogni gesto. I pianti, i lamenti, le gioie di un bambino appena nato sono parole, in esse si esprime quella creatura…”

(Giovanni Testori)

Nota: (Ma com’è che quando voglio voglio scrivere Teatro mi viene sempre fuori la parola Tetaro che io associo immediatamente a Tetano. E del tetano mi ricordo perché quand’ero piccolo io, si faceva la vaccinazione – l’antitetanica – e che se d’estate quando si era in vacanza dalla scuola, succedeva che in bici, con gli amici, con le scarpe aperte, i sandali per esempio, si andasse per i campi, magari scavalcando reticolati arrugginiti e strappati, o terreni incolti pieni di vecchie retine da letto, e qualcuno vi inciampava e si tagliava, se il taglio era profondo, la perdita di sangue abbondante, subito si correva a casa sua per farlo medicare dalla madre o più spesso ancora con la madre stessa, si andava dalla guardia medica e la cosa più facile da sentire era l’infermiere che diceva “Devi fare l’antitetanica. Altrimenti potresti prendere il Tetano” E quel nome lì, Tetano – associato al ferro arrugginito, alle reti e alle molle, ai reticolati con le maglie sfondate che finivano in aculei, mi dava sempre l’impressione che la ferita, il sangue e la ruggine, potessero ribollire insieme, la crosta dovesse assumere un colore marroncino e i labbri della ferita creparsi di bolle e coprirsi di scaglie rugginose, e sotto, come una promessa, affiorassero iridescenze metalliche e la ferita improvvisamente si aprisse di nuovo, rigettando abbondantemente un liquido corposo – la risulta di sangue ruggine e metallo – e sotto, tra i labbri della ferita – polpaccio o caviglia che fosse – l’osso del mio amico lucido di metallo. E questa cosa mi incuriosiva e eccitava. Ecco il Tetano per me era una cosa benefica, divertente, piena di vita. Era il beneficio visionario di una cosa diversa – il metallo – che nasceva da quanto c’era di più intimo e umano, una carne di bambino tagliata e un fiotto di giovane sangue rosso. Capisco che allora mi dava delle possibilità per tenere occupato il cervello. Mi dava delle possibilità. Ora non so perché ho raccontato questa cosa qui, cioè il legame che c’è fra il Tetano il Teatro e il fatto che sempre più spesso mi capita di scrivere Tetaro al posto di Teatro e che Tetaro mi ricorda Tetano e quindi il Teatro è come il Tetano. Non so. Però avervi raccontato questa cosa, l’averla detta a voi – ma proprio a voi, che ora mi state leggendo – mi piace. Fate voi.)Poi, rispetto a un discorso teorico, al come e cosa si cerca – nel teatro – io direi che bisognerebbe cominciare dal bruciare le scuole, tutte le scuole, dalle elementari all’università, esclusi forse i nidi d’infanzia – ma non ne sono certo – e l’università della terza età, l’importante è che di mezzo non ci vadano gli anziani. Poi, che gli attori dovrebbero fare due anni di volontariato in un paese in guerra, meglio se africano, e se resistono alla malaria e al resto, tornare in Europa a fare teatro. Che bisognerebbe bruciare i teatri, cioè proprio radere al suolo gli edifici, ma totalmente, e fare il teatro in casa, magari max per dieci spettatori a replica. Poi, che gli spettatori dovrebbero sentirsi ad ogni spettacolo un po’ come quei poveri russi in mano ai ceceni in quel teatro di Mosca, qualche anno fa. Sennò non serve a nulla.

Fuggire la parola

Di Roberto Ricco

Trattiamo di parole, di testi di materiale narrativo

In questo tempo critico in cui più nessuno sembra fare ciò a cui si era votato anche il teatro tradisce se stesso alla ricerca di una necessità.

Così troviamo la parola necessaria nel teatro di narrazione che è una riduzione ai minimi termini, come se non potessimo sopportare il peso di una cosa così complessa come il teatro sulla scena e dunque ci portassimo a casa (letteralmente visto che è l’unica forma teatrale presente sui media) una versione ridotta, formato tascabile e formato fruibile. Affascinante e poco ingombrante.

Ecco, ingombrante, il teatro ha bisogno di spazio e oggi invece di spazio ne abbiamo molto poco, proprio l’essere ingombrante faceva del teatro una forma ineludibile e partecipativa. Prendere spazio e occupare una scena che non era soltanto fisica ma anche civile e familiare.

Oggi invece tendiamo a ridurre l’ingombro a trasformare quel fastidio utile che è dato dal dover far posto all’esperienza teatrale in qualcosa di più comodo di meno ingombrante e di più maneggevole, perciò addomesticato, perciò molto meno utile anche nelle sue forme più provocatorie che spesso riducono la provocazione alla superficie della parola e del corpo senza portare il conflitto nel profondo, al cuore dell’esistere individuale e civile

Tutto è stato detto cento volte” diceva Boris Vian e concludeva che nonostante tutto “ciò mi diverte”, allora non è possibile reinventare nulla, mentre il teatro tenta continuamente di rifarsi una verginità perché la sua impossibilità a ripetersi porta con se il virus del nuovo senza rendersi conto che è nell’esperienza e nello spettacolo che ci si diverte (si trova diletto come diceva Brecht) dunque il testo è parte di un sistema complesso difficilmente disarticolabile. Dunque questo tentativo di rivitalizzare una parte piuttosto che un’altra rischia di generare un meccanismo poco produttivo in termini di qualità e efficacia. L’urgenza del testo coincide con l’urgenza della scena, la scrittura teatrale vive di voci parlate e non può restare scrittura.

L’esplosione dell’avanguardia teatrale nasce anche all’insegna di un teatro di regia che è in grado di rimescolare le componenti del teatro trasformando la testualità in immagine, il personaggio in corpo e simbolo, offrendo dunque un’opportunità di sperimentare altre modalità di incontro della complessità sulla scena. Oggi che questa esperienza è stata ampiamente superata dal presente (riusciamo più a farci stupire dalle immagini costruite a teatro?) Al teatro non resta che ripartire dai fondamentali, ma non possiamo dimenticare che la forma teatrale porta con se logos e symbolein allo stesso tempo. Sono io e siamo tutti, è allora e è ora. Dunque l’urgenza non si può portare in palestra deve essere movimento, allenamento e azione, anche nella parola.

Le nuove generazioni stanno morendo.

IL CENTRO DEL DISCORSO”

Di Sonia Antinori

La malattia del teatro italiano è ormai cronica e conclamata. Ben poca illusione concedono quei momenti di subitanea rinascita che paiono schiudere un qualche nuovo orizzonte. D’altronde in un sistema profondamente in crisi puntuali diagnosi ottimistiche sono inimmaginabili. Da sempre si lamenta la carenza di una legge che regolamenti la materia e questo non può non incidere profondamente nello stato delle cose. Fare teatro in Italia vuol dire consegnarsi a un mestiere per pochissimi, in cui le probabilità di frustrazione sono molto alte e se la dote più richiesta per affermarsi nel settore è ancora la creatività, lo è però piuttosto nell’accezione imprenditoriale ed economicistica. Per infondere a questa geremiade almeno una minima differenziazione, la affronterò da tre diversi punti di vista in base alla mia esperienza personale: parlerò quindi in qualità di operatrice teatrale, attiva nell’ideazione e realizzazione di iniziative e spettacoli; nelle vesti di drammaturga (odio il termine, ma è l’unico che, con una qualche confusione con l’analogo tedesco del consulente letterario designa la categoria – anche questo è significativo) e last but not least come spettatrice.

Un’idea di teatro. Espandere la propria attività autorale trasformandola in pratica di regia, vuol dire passare dalla teoria letteraria delle parole alla messa in atto dello spettacolo. Vuol dire sostanzialmente incontrare il pubblico in modo più immediato che non attraverso il filtro di un regista. O anche mantenendo un regista esterno, nello stabilire però un legame di complicità con lui, e permettersi comunque, attraverso questo canale, un approdo diretto al pubblico. Negli esperimenti che ho condotto si è trattato di un radicamento di progetti teatrali in un contesto culturale prestabilito, privilegiando un rapporto con la popolazione che fosse esteso nel tempo grazie a ricerche antropologiche sul campo e percorsi laboratoriali con non professionisti. Lentamente i lavori hanno sempre più assunto la connotazione di un teatro in situ, che si interrogasse sulle caratteristiche specifiche di un determinato territorio, le sue problematiche, il suo bagaglio storico e costruisse testi ed eventi spettacolari ad hoc. Questo approccio nel nostro paese è continuamente messo a repentaglio dalla instabilità delle amministrazioni e dalla genericità delle proposte culturali. Il prezzo del nuovo tentativo di decentramento, di valorizzare ambiti geograficamente periferici è quindi una precarietà della linea degli interventi, per cui è difficile garantire a un pubblico un’esperienza formativa basata sulla continuità e allo stesso tempo è impraticabile la realizzazione di un gruppo di lavoro qualificato e coeso.

La parola come unica arma. L’autore scrive. Nelle lezioni di Storia del Teatro all’università ci hanno insegnato che poi questi testi venivano fatti circolare, erano letti da registi, attori e subivano poi varie sorti fino a giungere più o meno felicemente, più o meno occasionalmente, più o meno fedelmente ad un loro pubblico. Questa la memoria. O certo anche la reale condizione in paesi solidi e votati a considerare l’identità di un popolo come fondamento di civiltà e garanzia di una qualità dello stare al mondo. Nel nostro paese invece tutti i verbi su cui è fondata la breve descrizione di cui sopra, vengono meno: i testi non circolano. A parte qualche virtuosa biblioteca virtuale, la stampa di settore ha subito negli anni una ulteriore riduzione e anticipando l’obiezione che qualcuno potrebbe sollevare, sventolando il dato della nascita di nuove iniziative editoriali, tengo a sottolineare che la maggior parte di queste non ha una vera e propria distribuzione e non consente all’autore quindi che una minima visibilità (e una consolante lusinga). Gli attori, i registi non leggono. Pur con le debite eccezioni, a un esubero di produzione drammaturgica testimoniata dal numero spropositato di copioni che sommergono ogni anno i concorsi nazionali più accreditati, non corrisponde altrettanto interesse negli operatori del settore, giustificati in parte da condizioni del lavoro sempre più alienanti e i ritmi imposti dalle leggi del carrierismo. Di norma i registi non leggono. Gli attori non leggono. I critici non leggono. E, aggiungerei, non leggono neanche quegli operatori che spesso abitano le stanze dei bottoni di produzione e programmazione. Con buona pace degli autori, che tanto non si leggono l’un l’altro neanche loro. Il risultato, anche in questo caso si chiama occasionalità. L’occasionalità è la madre della precarietà. La precarietà, dell’insicurezza e via andare fino a quell’impoverimento delle nostre scene che è sotto gli occhi di tutti.

Io, spettatrice. Se risalgo la mia lunga storia di spettatrice, iniziata in età precocissima, riscopro stralci di memorie eccellenti: Carmelo Bene, Leo, Thierry Salmon da un lato, dall’altro, più indietro e altrove Moriconi, Buazzelli, Stoppa. Citati a mo’ di esempio. Non voglio indugiare in una rievocazione nostalgica, per carità. Voglio solo porre l’accento – ovvio – sul fatto che l’espandersi del mercato dello spettacolo, ha spostato i pesi del sistema teatro su elementi che con la sua connotazione linguistica hanno poco a che fare, screditandolo e riducendolo troppo spesso. Il risultato è che, a parte le eccezioni – che come tali sono rare – andare a teatro è noioso. Le compagnie sia del teatro cosiddetto classico che della altrettanto etichettata ricerca, spesso ripetono una loro cifra, abbandonandosi al manierismo e all’autocelebrazione. In questo regolarmente sostenute dalla critica, anch’essa inasprita, delusa e di sempre maggior conservatorismo (sia esso applicato a modelli classici, moderni o postmoderni: tutto è stato già visto e come tale già riconosciuto). Ma se ho perso interesse io, che ho amato tanto questa forma espressiva per la complessità della sua articolazione e la mistica del suo senso più profondo, io che ho speso il mio tempo misurando il teatro sulla sua potenzialità di costruire orizzonti non ancora reali, che cosa sarà dello spettatore meno innamorato, più indifferente, più coltivato e meno ingenuo?

IL CENTRO DEL DISCORSO”

Lecce, 5/6/7 dicembre 08

Di Katharina Trabert

3 cose semplici.

  1. Non so molto e sicuramente non so risposte, perciò inizio con alcune domande che possano stimolare riflessioni.

  2. Qualcosa sul mio lavoro artistico personale

  3. Qualcosa sul mio lavoro e la mia formazione artistica

1.

    1. La creazione contemporanea di questi anni, a chi si rivolge?

    2. In quanto, nella creazione del nostro lavoro, dobbiamo considerare il suo pubblico?

    3. Come possiamo pensare ad una creazione partecipativa di lavoro teatrale?

    4. Visto alcune tendenze, quale è il valore di arte per artisti ed intellettuali?

    5. Come scegliamo i temi per il nostro lavoro?

    6. Li riteniamo rilevanti?

    7. Per chi?

    8. Come li trattiamo per renderli rilevanti?

    9. Chi è l’attore`

    10. Chi è il regista?

    11. Chi è il performer?

    12. Chi è il drammaturgo?

    13. Chi è il drammaturgo contemporaneo se la morte dell’autore è stata già proclamata mezzo secolo fa?

    14. Perchè lo spettacolo dal vivo?

    15. Quale è il rapporto tra attori/performer e pubblico?

    16. Quale è il contributo che cerchiamo di dare alla società e al mondo in cui viviamo?

    17. Quale è il compito del teatro e dei teatranti?

    18. Quale è la mia modesta missione?

2. Darmi un titolo nel mio lavoro artistico trovo difficile. All’estero mi chiamo ‘performance maker’. In Italia immagino si tratterebbe di ‘autrice’ e ‘performer’, ma il mio lavoro non consiste in una seperazione dei due. Non scrivo e dopo ‘performo’.

Creo spettacoli e performance (non so sempre bene quale sarebbe uno spettacolo e quale una performance, la definizione avviene in modo piuttosto arbitrario) raccogliendo pezzi e mettendoli insieme in una nuova composizione. A volte la composizione nasce nel momento della sua presentazione, a volte la precede.

Sono una ladra. Rubo da tutti e così creo. Poi racconto della mia banalissima vita perché altro non ho, astraggo la mia banalissima vita per renderla quella di altri.

Rubo testi di libri, dialoghi di film, parole e storie dalla bocca di chi le racconta. Rubo gesti ed azioni, immagini, linee, colori, melodie, idee, strutture, pensieri, sentimenti, suoni, sapori, rubo oggetti. A volte, nei spettacoli, rubano oggetti a me, gli spettatori. Lo ritengo solo giusto. E poi riscrivo quello che ho rubato, ma molto lascio anche stare come è.

Una volta rubato abbastanza creo una nuova sostanza, compongo, disegno, e la rido, restituisco, regalo al pubblico. Prima regalo oggetti, poi sguardi, parole, immagini, movimenti, storie, suoni, sentimenti, idee, pensieri.

Regalo per onorare tutti di cui ho rubato.

Tutto ciò solo un pò sul ‘come’ del mio lavoro, senza di entrare nel’perchè’.

3. Sono una teatrante senza la minima esperienza con/conoscenza di drammaturgia. Poche volte, anni fa, ho lavorato con chi usava testi drammatici già scritti per la creazione dello spettacolo.

Ho studiato ‘devised theate’ in Inghilterra e da allora ho sempre lavorato con compagnie che praticano questa tecnica.

Nella formazione, nello studio del ‘devised theatre’ non studiamo né recitazione, né regia, né scrittura. Facciamo un pò di tutto e tant’altro. Studiamo, a metà in pratica, a metà teoricamente, la creazione di spettacoli attraverso un processo estremamente organico e democratico.

Partiamo con un tema, un oggetto, una musica, un ombra, un ballo, una bozza scenografica, un’idea vaga o precisa, partiamo con qualche cosa e questa qualsiasi cosa si chiama ‘starting point’. Attraverso un processo di ricerca (artistica, teorica, scientifica…), giochi, compiti (‘tasks’) ed improvvizzazioni sviluppiamo questo punto di partenza. Il materiale generato è sempre in trasformazione, in continuazione sene butta via gran parte. Raramente esiste nel gruppo il ruolo del regista. Preferiamo lavorare con dei ‘outside eye’. Uno di noi, oppure un collaboratore che invitiamo, assiste alle prove, osserve e da il ‘feedback’.

Il risultante prodotto finale di tale processo è altamente influenzato dai personaggi che fanno parte del gruppo artistico e si riflettono nello spettacolo. Così, scambiare performer, può essere una cosa diffilmente immaginabile e preferibilmente evitabile (come lo spostamento di un lavoro ‘site specific’ dal luogo della sua creazione).

Ovviamente ogni lavoro è assolutamente unico e prodotto vivo dell’incontro tra i suoi creatori in questo specifico periodo di creazione.

Comunicato stampa

IL CENTRO DEL DISCORSO”

Il 16 Ottobre si apre il bando per la partecipazione alla prima edizione del premio nazionale di drammaturgia contemporanea “Il Centro del Discorso” .

Il premio è promosso dall’ Associazione Culturale Induma con la preziosa collaborazione di Manifatture Knos, Società cooperativa Sogno Sveglio, Associazione Culturale Sud Est, Società Cooperativa Cool Club, Associazione Culturale Officine Kata Pelta, Teatri delle Mura (PD), Area 06 (RM), Short Theatre Festival (RM), Titivillus Edizioni (PI), Kilowatt Festival (AR), Spazio Off – Fabbrica Famae (BA), Teatro San Martino (BO) e realizzato con il contributo di Regione Puglia – Assessorato alla Cultura ed al Mediterraneo -, Provincia di Lecce – Settore Politiche Giovanili -, Comune di Lecce, Quarta Caffè, Lupo Editore, Masseria Ospitale  e con il patrocinio del Teatro Pubblico Pugliese; si avvarrà inoltre dei media-partner Salentoweb Tv e Radio Popolare Salento.


Il premio è parte integrante di un articolato progetto culturale che proseguirà fino ad Ottobre 2009 e ospiterà importanti esponenti del mondo teatrale, letterario e culturale nazionale e internazionale. Il progetto si articolerà in tre fasi: la prima e la seconda fase saranno dedicate alla riflessione sulla drammaturgia, agli incontri di studio, alla produzione di testi e ai laboratori di scrittura teatrale. La terza fase, invece, alle letture sceniche dei testi, alla rappresentazione degli spettacoli e ad un laboratorio di critica teatrale, puntando sulla “formazione” non solo degli artisti ma anche del pubblico e della critica.

Il Premio consiste in un contributo economico di 500 euro al completamento di 4 progetti di testo teatrale, 2 dei quali presentati da autori che alla data di scadenza del bando non abbiano ancora compiuto il 26° anno di età. Successivamente al completamento dei 4 progetti selezionati verrà proclamato il testo vincitore, che verrà presentato attraverso letture sceniche o prove di studio e di perfezionamento in alcuni circuiti e festival di teatro sul territorio nazionale. Il testo vincitore potrà inoltre usufruire di un periodo di residenza, finalizzato alla produzione dello spettacolo, presso le Manifatture Knos di Lecce, dove sarà presentato in anteprima in occasione del Festival di Drammaturgia Contemporanea che si terrà in ottobre 2009.

Il bando si chiuderà il 15 Gennaio e sarà scaricabile dal sito www.manifattureknos.org. I partecipanti dovranno inviare un progetto drammaturgico, in forma di exposè (max tre pagine), che descriva in modo completo l’opera. Dovranno inoltre inviare il testo definitivo di tre scene significative. Gli elaborati saranno valutati da una giuria d’onore, i cui componenti sono: Fabrizio Arcuri (regista, direttore festival Short Theatre-Roma, direttore Area06-officine culturali Regione Lazio, membro interno commissione Premio Scenario), Arturo Cirillo (regista, attore e capocomico),  Massimiliano Civica (regista, direttore Teatro della Tosse – Genova), Andrea Porcheddu (critico teatrale e giornalista, docente di Metodologia della critica dello Spettacolo presso lo IUAV – Venezia, direttore festival Teatri delle Mura – Padova), Letizia Russo (scrittrice e drammaturga), Antonio Tarantino (scrittore e drammaturgo), Clarissa Veronico (organizzatrice teatrale e docente universitaria). I giurati saranno coordinati dalla presidenza senza diritto di voto di Werner Waas (presidente di Associazione Culturale Induma e regista teatrale).

“Il Centro del Discorso” ha l’ambizione di imporsi come evento da riproporre annualmente al fine di contribuire a rivitalizzare l’attività teatrale pugliese facendo crescere il discorso culturale in una prospettiva non localistica ma di apertura e riflessione sulla capacità di dialogare. Vogliamo che il Salento sia motore di una rinascita a livello nazionale dell’arte drammaturgica e culla di un nuovo ruolo del teatro nella comunità di cui è specchio ed espressione. L’idea che in teatro, nello spazio che si apre tra artista e pubblico, si manifesti il mondo in cui viviamo, e che questa manifestazione abbia la forza di modificare la percezione della realtà e generare pensiero, ha fatto nascere l’urgenza di creare un’occasione in cui l’arte scenica e la parola drammatica possano riflettere sui tempi odierni, sul contemporaneo, sulla nostra vita di artisti e uomini, oggi. Vogliamo che il Salento, partendo dalla periferia, si faccia centro propulsore di una rinascita a livello nazionale dell’arte drammaturgica, per giungere, finalmente, al centro del discorso.”

Lea Barletti, Werner Waas

INDUMA TEATRO

Manifatture Knos

via Vecchia Frigole 34 Lecce

Tel. 0832394873

teatro@manifattureknos.orghttp://www.myspace.com/indumateatro

www.manifattureknos.org

PARTECIPANTI:

Miguel Acebes, Dario Aggioli, Marco Andreoli, Sonia Antinori, Lea Barletti, Tiziana Buccarella, Margherita Capodiferro, Manuela Cherubini, Massimiliano Civica, Roberto Corradino, Antonella Dipierro, Francesco Farina, Simone Franco, Lucia Franchi, Elvira Frosini, Anna Lisa Gaudino, Graziano Graziani, Antonella Iallorenzi, Ceilia Maffei, Cristiano Marti, Renzo Martinelli, Maria Luisa Mastrogiovanni, Pietro Minniti, Antonio Moresco, Paolo Musio, Fabrizio Parenti, Andrea Porcheddu, Nicola Quacquarelli, Luca Ricci, Roberto Ricco, Letizia Russo, Giuseppe Semeraro, Tiziano Scarpa, Michele Sinisi, Giuseppe Suppa, Antonio Tarantino, Daniele Timpano, Fabio Tinella, Katharina Trabert, Clarissa Veronico, Nicola Viesti, Werner Waas, gli abitanti delle Manifatture Knos.