Werner Waas
All’inizio c’era l’entusiasmo di Lea, sempre di nuovo quel suo entusiasmo! per La notte della Morava. E poi c’era quel suo pluriennale insistere, ossessivo, ininterrotto, perché tirassi fuori un testo, un progetto sul quale lavorare e scappare così dalle contingenze quotidiane e dal vuoto che ci stava per inghiottire. In fondo non avevamo più fatto nulla di veramente degno di nota dalla nostra Anarchia in Baviera due anni prima. Io non avevo voglia di fare niente, non avevo nessun’idea in grado di mettere in moto qualcosa e assistevo impotente allo sgretolarsi del nostro rapporto.
Nel corso di due anni avevo fatto svariate proposte, sempre con poca convinzione. Suzanne Andler della Duras si avvicinava più di altri alla nostra situazione. Ero di nuovo arrivato al capolinea della mia arte. Avevo perso la lingua e mi trovavo in balia degli eventi. Poi venne Handke, passo dopo passo, molto lentamente. Dapprima con Sono un abitante della torre d’avorio, ovvero lo sguardo di Handke sulla produzione estetica, la sua pretesa di un tempo altro, di uno sguardo più preciso. Precisione era già stata la parola magica nelle mie conversazioni con Milena Massalongo durante i lavori al Fatzer di Brecht. Significa tutto quello che in Italia di questi anni non è possibile. Il desiderio di un qualche punto fisso, cristallino, a partire dal quale poter interpretare ex novo il mondo. I “metodi” di Handke, dei suoi inizi, per scardinare vecchi e inamovibili modi di vedere e pensare, erano per me una scuola della liberazione. Poi, un giorno, sentii una sua registrazione su disco di Il mondo interiore del mondo esteriore del mondo interiore, e sentii… me. Voglio dire, che sentii la mia estraneità nella lingua, tutto quello che mi separa dal mondo e che determina, in fondo, il mio essere come l’essere di uno che si confronta esattamente con tutto questo.
Seguirono altri viaggi nei testi di Handke, ognuno un tentativo di liberazione dal già noto, dal già fissato, attraverso una coriacea attesa, attraverso un paziente aggirarsi alla ricerca di un ritmo, di una forma che riuscisse a far apparire ciò che in realtà non si può dire.
L’emancipazione dal testo tramite il divenire parte di qualcosa fuori di noi, è utopia vissuta, se riesce. I testi che per me dimostrano meglio questo processo sono: Ancora tempesta, Il mio anno nella baia di nessuno, Ma io vivo solo degli interstizi e Lento ritorno a casa.
I due anni seguenti sono stati dedicati alla realizzazione di Autodiffamazione, scelto per il suo speciale metodo di elenco di frasi che appartengono a tutti, e per il suo concentrarsi su una coppia primigenia, i due oratori: un uomo e una donna.
Intorno a noi il mondo cambiava a un ritmo vertiginoso. I processi di disgregazione sociale che già da tempo covavano più o meno sottotraccia, erompevano dappertutto attraverso la sottile coltre di un sistema sociale superato. Un processo di disgregazione che non per ultimo, riguarda anche la lingua e la crescente difficoltà di formare delle frasi, e un pensiero. Abbiamo lasciato l’Italia per la netta sensazione di non riuscire a imboccare una strada fruttuosa, di non poter lavorare ad una prospettiva di futuro. A Berlino, Lea ha perso la lingua e il mondo che conosceva ed ha iniziato seriamente a scrivere. Il titolo del suo primo racconto è Il paesaggio. Era l’ultimo impulso per iniziare le prove.
All’inizio, Lea insisteva per avere un regista esterno, voleva un’idea forte, un’idea di una forma, dopo tanti anni non si fidava più dei miei dubbi ossessivi, tanto più che stavolta volevo anche recitare. Ma presto ci siamo accorti, e siamo stati d’accordo, che non ci serviva un regista, né alcuna idea venuta da qualche altrove, se solo ci fossimo dimostrati capaci, e ci fossimo permessi, di lasciare fluire il testo dentro di noi e di farci guardare in tutta onestà, e per così dire senza veli, nel nostro lavoro, come rappresentanti dell’umanità intera, come unità sociale minima.
Dopo l’iniziale versione solo italiana siamo arrivati per evoluzione naturale all’attuale forma bilingue, che corrisponde esattamente a ciò che il testo è: un gioco esistenziale con la lingua. Questo testo è un dispositivo per il superamento del proprio io, per la presa di contatto col mondo. “Io sono venuto al mondo”.