Lea Barletti
Non avevo mai letto niente di Peter Handke. Si, da ragazzina mi era passato tra le mani La donna mancina: non ne conservo alcun ricordo. Poi, circa tre anni, fa ho visto in libreria La notte della Morava: l’ho preso, come spesso faccio, perché mi piaceva il titolo. Ho iniziato a leggerlo, e non potevo credere ai miei occhi, o meglio alla vastità di pensiero che si dispiegava dentro di me al ritmo della sua scrittura come al ritmo del camminare.
Da tempo non avevo più letto nulla di simile, qualcosa che riuscisse ad accordare il mio ritmo interiore con la grandezza e la fragilità del respiro di un pensiero umano che percorre il mondo: epica, si chiama così, credo, questo tipo di scrittura, ma un’epica che ha il ritmo del camminare a piedi: che emozione!
Poco tempo dopo, allora, nella nostra annosa ricerca di un testo da portare in scena, con Werner abbiamo provato a leggere alcuni dei suoi testi, con una nostra cara amica e collega, l’attrice Cecilia Maffei. Intorno al tavolo della cucina della nostra casa di allora, in Salento, una sera abbiamo letto anche Autodiffamazione. Finita la lettura, Cecilia ha alzato gli occhi dal testo e, esterrefatta, ha esclamato: Mio dio, non vorrei mai essere la sua compagna: che fatica! La compagna di Handke, intendeva.
Ancora adesso, mi sembra una delle osservazioni più acute che abbia sentito su Peter Handke, e per me vuol dire: questo scrittore non ti da scampo, perché lui vede, vede tutto, non può fare a meno di vedere. C’è un racconto di Borges che ho letto da adolescente, si chiama Funes o della memoria: il protagonista è un uomo che ricorda tutto, ma proprio tutto, nei minimi particolari, non può dimenticare niente, la sua memoria ipertrofica non lascia andare nulla. Più che di una dote, si tratta di una condanna: Funes non è come gli altri: come si può vivere senza dimenticare niente? Funes è un freak. Ecco, per me, anche Handke è un freak, solo che invece della memoria, ha una vista ipertrofica, una vista cui non sfugge nulla: vede tutto, non può non vedere, è condannato a vedere.
Nella sua scrittura si dispiegano paesaggio interiore e paesaggio esteriore, tra i quali per una tale vista non esiste confine, ed è commovente questo immane tentativo di mettere nero su bianco, una parola dopo l’altra, il mondo. E subito ho sentito che questo immane, e per me in quanto immane, commovente tentativo mi riguarda, mi chiama in causa, e mi muove dentro, appunto, e mi muove a condividere con altri questa grande emozione del venire alla parola: e tale condivisione ha bisogno di un rito in cui la parola diventi il punto d’incontro, ed è il rito del teatro, dove, in questo caso più che mai, chi porta la parola non si trova in posizione diversa da chi la ascolta, perché l’io che parla, che viene alla parola, in Autodiffamazione, ma credo anche negli altri testi di Handke, non è io-separato-da-te, e non è però neanche noi, ma è un Io-tutti, un Io-paesaggio, un Io-mondo: quello che è, quello che è stato, ma anche quello che avrebbe potuto essere, quello che non è stato, quello che sarà, quello che io-io magari non ho fatto, non ho detto o non ho pensato, ma ha fatto io-tu, o io-un altro.
Non è in fondo la stessa cosa? Non mi riguarda, forse? Io sono andato a teatro, io ho ascoltato questo testo, io ho detto questo testo, io ho scritto questo testo. Sono le ultime parole di Autodiffamazione. Si, mi riguarda.