Caro Herbert,
è passato molto tempo dalla prima lettera che ti ho scritto, ma questa, che per il momento è anche l’ultima, è una lettera particolare, accompagna infatti l’uscita italiana del tuo libro L’Ora della Morte. Tutto sommato abbiamo aspettato solo 10 anni prima che arrivasse il momento.
La prima volta che ho sentito parlare di te avrò avuto a malapena 16 anni. Tu eri già piuttosto conosciuto allora, avevi realizzato qualche film, pubblicato dei libri fra i quali anche L’Ora della Morte, ma per noi ragazzi di paese eri ancora una scoperta. Dalle nostre parti non eri molto ben visto, avevi fama di chi sputa nel piatto in cui mangi, era difficile trovare libri tuoi lì dove eri cresciuto e dove io allora cercavo di trovare la mia strada, in Bassa Baviera.
Poter leggere il nome di un paese come Deggendorf, Hengersberg, o anche il tuo Breitenbach in un romanzo, a me allora era sembrato un miracolo, un tocco di luce: c’era dunque la possibilità di scappare da quella provincia e dalla sua lingua per poterla osservare da fuori! L’identità bavarese ti rimane appiccicata addosso a vita e il modo in cui noialtri parliamo e ci esprimiamo rimanda continuamente al luogo della nostra origine. Per molto tempo mi sono vergognato di aprire bocca e di dare a vedere in questo modo da dove venivo. Per il teatro, la cosa che più mi attirava allora, la Bassa Baviera era il posto peggiore da cui provenire, impossibile fare l’attore con quella pronuncia, continuavano a dirmi.
Nel 1984 ero all’università di Erlangen. Una mia compagna di studi ti faceva da assistente per la messa in scena del tuo Gust1 a Monaco e dovette compilare un piccolo dizionario per la traduzione dei termini della Bassa Baviera cosa che, per quanto grande fosse la mia invidia, era comunque una piccola rivincita. L’università mi sembrava una cosa senza senso e nel 1986 ne avevo abbastanza e ne avevo abbastanza anche della Germania e quindi emigrai in Italia. A Roma imparai l’italiano facendo l’addetto alle pulizie in un collegio cattolico: secchio, straccio, prodotto, furono le mie prime parole nella nuova lingua. Intanto vagavo per Roma e andavo a teatro, spesso ero l’unico spettatore. Scovai un teatro dove davano Susn2 in una zona periferica e mi presentai. Ottenni un contratto da assistente alla regia. Era un inizio. Come un pazzo traducevo nel mio italiano incerto un testo dopo l’altro, Jelinek, Heiner Müller, Achternbusch e passavo da un teatro all’altro in qualità di aiuto regista straniero, e quindi comunque interessante. Quando nel 1994 fondai finalmente un mio gruppo con degli amici la nostra prima azione fu quella di abbandonare il teatro come edificio e istituzione e di trovare dei luoghi più comunicativi come i bar o le osterie, luoghi che non erano frequentati soltanto da coloro che facevano esattamente lo stesso nostro mestiere, o da chi soffriva in qualche modo di noia culturale, ma da persone che magari non sapevano nemmeno cosa fosse il teatro e a cosa potesse servire. In una di queste birrerie, il GoldfinchClub, non lontano da Campo dei Fiori, mettemmo in scena la tua Rana3. Lionello, l’oste, fu il nostro primo spettatore e consigliere. Per le prove tradussi la prefazione de L’Ora della Morte e parola dopo parola la mettemmo in pratica: non ci curammo della linea di confine fra arte e vita, lasciammo fluido e aperto il varco e approdammo a un ritmo di gioco teatrale quasi meteorologico che mi faceva pensare a molti tuoi film. Ti scrissi una lettera nella quale ti raccontavo quello che stavamo facendo con il tuo testo e cosa accadeva durante le prove. Allegai a quella lettera anche uno schema complicato che era stato disegnato da Lionello: una lettura assolutamente originale, necessaria e personale da parte di chi forse non avrebbe mai incontrato questo tuo testo sotto forma di libro. Quel lavoro su La Rana mi permise di capire che ciò che stavamo facendo era più importante e più bello di quello che in origine avevamo immaginato. E’ stata la scoperta della realtà come elemento base di ogni azione, che non solo descrive la realtà stessa, ma riesce a trascinarci lì dove inizia la parte ancora sconosciuta, la quale a sua volta metterà di nuovo in discussione la realtà che conosciamo. Mi scrivesti che saresti stato presente alla proiezione del tuo nuovo film Hades4 al festival di Bolzano e io senza pensarci due volte salii sul treno. La sera stessa ti cercai nelle osterie di Bolzano, sbirciando attraverso le finestre finché non ti trovai, circondato dal tuo clan, mi feci coraggio, entrai e mi presentai: sulle prime mi hai guardato in malo modo e hai parlato bruscamente, per mettermi alla prova, ma poi mi hai fatto accomodare lì con voi al tavolo e più tardi mi hai fatto vedere quella grossa colonna di granito rosso in qualche scantinato lì vicino. Non abbiamo parlato molto quella sera, ma comunque abbastanza per ricordarci l’uno dell’altro, “duro” doveva essere ciò che facevamo, dicesti.
Quella nostra Rana, forse nemmeno tanto dura, la videro e la apprezzarono in molti e abbiamo trasformato molti scantinati e molti bar in buie paludi da attraversare per poi trovare una via d’uscita verso l’agognato deserto, come fa la tua rana, senza nascondere la nostra vulnerabilità, al contrario, ostentandola. Abbiamo sempre lasciato le porte aperte, abbiamo fatto entrare i rumori della strada, l’imprevedibile della vita fuori e a volte qualcosa arrivava fino a noi, dentro il “teatro”. Ancora oggi mi capita di incontrare gente che non conosco e che mi racconta della sua personale esperienza con La Rana, e questo è bello, fa bene all’anima.
Il GoldfinchClub più tardi l’hanno dovuto chiudere per motivi igienici e noi ci spostammo verso altri luoghi: sedi di partito, gallerie d’arte, per la strada e nei centri sociali alla ricerca di sempre nuove modalità capaci di dar forma a quell’esperimento sociale che si chiama teatro.
Il 1997 fu l’anno della mia seconda messa in scena di un tuo testo, L’Ultimo ospite5 al Teatro Stabile di Brescia, combinata con una mostra del tuo ciclo di dipinti “Takla Bash”. A Brescia avevo lavorato a più riprese per 7 anni in qualità di aiuto regista e quindi conoscevo bene la città, ma proprio per questo forse tutto andò storto. Mi avrebbero volentieri fatto a pezzi dopo il nostro spettacolo e fino al 2004 non mi potei più fare vedere da quelle parti. E tutto solo per via di quel tripudio verbale nel corso del quale Tucidide mette sotto processo la società decadente e molto autoreferenziale in cui vive, e che forse nella Brescia di allora risultò fin troppo riconoscibile. Il dibattito nella stampa locale si trascinò per due mesi: direzione, regista e attori, tutti finirono sul banco degli accusati e nessuno si accorse che in quell’occasione finalmente sarebbe potuto succedere qualcosa con il teatro. Ovviamente si levarono anche voci positive, qualcuno addirittura ne scrisse con convinzione, ma alla fine vinsero i reazionari. Un anno dopo ho pensato bene di espormi al pubblico ludibrio davanti a tutto il teatro italiano con Pene d’Amor Perdute di Shakespeare al Teatro Valle e decisi che per il momento poteva bastare. Tutta la mia rabbia e la mia frustrazione la riversai poi su Plauto, l’abbiamo provato e rappresentato infatti direttamente sul marciapiede, o nei parchi pubblici fra spacciatori e tossicodipendenti e famiglie asiatiche che si incontravano regolarmente lì per pranzare, oppure sulle rive del Tevere, dove, in capanne di cartone, erano accampati gli immigrati clandestini , i quali, ogni tanto, durante lo spettacolo si prendevano pure in prestito per un po’ la nostra bici di scena . Me ne fregavo, in quel momento, di tutta quanta la cultura, mi aggiravo fra i bassifondi romani e me ne fregavo tutti quei cervelloni che scrivevano sui giornali, del ministero, delle sovvenzioni, del teatro, e delle istituzioni. Mentre sfogavo così la mia rabbia continuavo a tradurre testi tuoi: L’Ora della Morte, Mio Herbert6, Cuore di Vetro7, Lo Stivale e il suo Calzino8, Bonaccia9, più tardi poi Il Campione del Mondo10, in teatro feci nel frattempo Werner Schwab, Jelinek, Moresco, Moravia e non da ultimo Tarantino (il tuo corrispettivo italiano per me: allo stesso modo in cui vengo a stanare te allo “Schneiderbraeu” di Monaco, al tavolo vicino al banco di mescita, così vado a stanare lui a volte a Torino nella sua “Piola” vicino alla stazione di Porta Nuova: stesso anno di nascita, pittore, scrittore, autodidatta.)
E poi fu la volta di Dulce Est11, è stato nel 2004 a Roma, ad oggi la mia ultima messa in scena di un tuo testo: teatro per bambini chiami questa storia di suicidi sotto la citazione oraziana. Rare volte mi è capitato di leggere qualcosa di così vicino alla realtà e che allo stesso tempo desse così poco a vedere che le era così vicino. Come l’albero di prugne della tua infanzia, del quale racconti ne L’Ora della Morte, esattamente lo stesso effetto mi faceva quel testo: come fosse esso stesso natura e si fosse liberato da qualsiasi autorialità, come fosse riuscito a fare il salto nel periodo prima del compimento del 5. anno di vita, prima della completa formazione di un Io, che poi non fa che starsi fra i piedi. Il salto in un periodo quindi in cui si è ancora parte naturale di tutto quello che ti circonda. Il bello fu che gli attori grazie al testo riuscirono a trovare anche loro una strada verso quel tipo di libertà, cosa niente affatto scontata in un tempo come quello in cui viviamo.
Certo non si può sperare di avere un successo strepitoso con uno spettacolo del genere, si tratta piuttosto di un lavoro che rimane in disparte, di un programma in contrasto con quel mercato che gira come impazzito sempre più veloce intorno a se stesso e non trova il tempo per fermarsi un attimo e fare ad esempio qualcosa di così inconcludente come ricordarsi i nomi dei fiori. Cosa che hanno fatto gli attori , completamente nudi sulla scena davanti ad un pubblico leggermente spiazzato.
Con mia moglie e i miei bambini siamo poi venuti a trovarti una volta nella tua “Casa Azzurra” nel Waldviertel in Austria. Avevi costruito un tempio e un teatro nel cortile di casa. Noi stavamo sempre seduti nel tempio, a giocare e a bere il tè fra le tue grandi sculture in legno vecchio dipinto e il leone di pezza da cavalcare, mentre il teatro stava lì, abbandonato a se stesso, invaso dalle erbacce e sorvegliato solo dal grande dipinto giallo raffigurante tua figlia Noemi mentre le sanguina il naso. L’immagine di quel teatro me la porto dentro da allora. Andavi tutti i giorni in paese a comprare del pesce vivo per poi buttarlo nello stagno, che avevi scavato tu stesso dietro casa, come cibo per gli aironi che venivano invece combattuti aspramente da tutti i contadini della zona. Questa è la tua forma di buddhismo, che dice qualcosa anche sul tuo modo di vivere e di scrivere.
Nel 2006 sei poi venuto ancora una volta a Roma dove avevamo organizzato una piccola mostra con alcuni dipinti del tuo ciclo “Macchie bianche”. Ma Roma non ti piaceva, insieme abbiamo sofferto durante l’inaugurazione ascoltando le parole vuote e retoriche dell’assessore alla cultura, tutti avevano paura di te, paura che potesse di nuovo succedere un casino come allora durante il conferimento del premio Petrarca quando bruciasti l’assegno. Ma non si è arrivati a tanto. Quasi tutti coloro che aprirono bocca a Roma, lo fecero solo per ascoltare se stessi, cosa paradigmatica per un paese e una cultura che gira ossessivamente intorno a sé e non trova una strada per uscire da questa sterile orbita autoreferenziale.
Cos’altro? Non so nemmeno se questa tua storia italiana ti interessi, ci sono naturalmente anche molte altre persone che hanno lavorato sui tuoi testi: la traduttrice Luisa Gazzero Righi, Gianfranco Varettoregista e attore (Susn) nonché nostro compianto Tucidide, Valter Malosti, regista e attore (Ella), Lady Godiva con Maurizio Lupinelli, regista, attore (Ella), Totò Onnis, attore (Ella), perfino il Teatro Due di Parma si era interessato al tuo Gust, e non so chi altro, ma l’unico testo che è stato veramente in grado di affermarsi da queste parti è stato Ella. Tutto ciò che è arrivato dopo per quanto riguarda i tuoi testi è risultato incomprensibile, estraneo e ritmicamente non concepibile per l’Italia. L’uniformazione culturale attraverso un’offerta televisiva criminale ha inferto ferite molto gravi da queste parti ed è diventato sempre più difficile avere a che fare con un’estraneità, con una lingua che non si inserisce in nessuno schema, con delle idee che non sono attribuibili a nessuna “famiglia”, con immagini che non scorrono nei ritmi standardizzati della televisione . Non so più a quante persone ho sottoposto il tuo L’Ora della Morte in forma di manoscritto in tutti questi anni, finché non mi sono imbattuto in Antonio Moresco, che ha capito il tuo testo al volo, probabilmente in virtù di una sua estraneità molto simile alla tua. È stato lui, poi, a trovare un editore.
Quel che io stesso ho sempre cercato di fare qui, e in questo tu sei stato il mio maestro e “generale con quattro stelline”, è stato resistere alla tentazione totalitaria di una forma già data e normalizzata che avrebbe reso in qualche modo regolabile tutto quel mio brancolare e vagare che poi è la ricerca; è stato trovare invece sempre di nuovo il coraggio di aspettare finché non si cristallizzasse una qualche nuova forma a partire dal nostro lavoro comune, una forma della quale nessuno di noi aveva idea fino a quel momento. E’ quel coraggio che mi manca soprattutto ora, nell’autunno 2011, in questa Italia malata, che avrebbe bisogno anch’essa di reinterpretarsi ex novo in modo radicale. Quel coraggio che, in forma un po’ disperata, è alla radice dell’unico grande romanzo della tua vita sotto forma del tuo motto “Non hai nessuna chance, ma sfruttala!”
Grazie Herbert,
tuo Werner
San Cesario di Lecce, 2. Novembre 2011
1 Herbert Achternbusch, Gust, pièce teatrale, 1978.
2 Herbert Achternbusch, Susn, pièce teatrale, 1980.
3 Herbert Achternbusch, Der Frosch [La rana], pièce teatrale, 1981.
4 Herbert Achternbusch, Hades, film nominato per l’Orso d’oro al Festival di Berlino nel 1995.
5 Herbert Achternbusch, Letzter Gast [L’ultimo ospite], pièce teatrale, 1996.
6 Herbert Achternbusch, Mein Herbert, pièce teatrale, 1982.
7 Herbert Achternbusch, Herz aus Glas, sceneggiatura per il film omonimo di Werner Herzog, 1976.
8 Herbert Achternbusch, Der Siefel und sein Socken, pièce teatrale, 1993.
9 Herbert Achternbusch, Windstille, album di famiglia 1982
10 Herbert Achternbusch, Der Weltmeister, pièce teatrale, 2005.
11 Herbert Achternbusch, Dulce est, pièce teatrale, 1998