Parla, Clitemnestra!

un’eterna tragedia, in versi

Testo: Lea Barletti
con: Lea Barletti e Gabriele Benedetti
regia: Werner Waas
Produzione: Barletti/Waas
(con il sostegno di Florian Metateatro e Consorzio Altre Produzioni Indipendenti)
foto: Luciano Onza

link video: https://vimeo.com/manage/videos/722909335 (per la password contattateci dicendoci chi siete e perché desiderate vedere il video)

Sullo spettacolo:
Perché Clitemnestra? Perché scrivere e mettere in scena un testo ispirato a questo
personaggio in fondo “minore” della tragedia greca? Clitemnestra è uno dei tanti “danni
collaterali” della gloriosa Storia degli uomini, nello specifico la guerra di Troia, con i suoi
eroi (maschi) perdenti o vincenti che siano, le sue vittime sacrificali (donne, bambini) che
assurgono agli onori di quella stessa storia grazie al proprio sacrificio (Ifigenia, per
esempio). Clitemnestra non merita che le si intitoli una tragedia, una storia a sé.
Clitemnestra è nota prima come moglie fedifraga e assassina di Agamennone, poi in quanto
vittima del matricidio che il figlio Oreste compirà per vendicare la morte del padre. E la sua
storia? Non pervenuta.
Abbiamo dunque scelto di far parlare Clitemnestra. Intrappolata in un ruolo, in un nome, in
un personaggio, Clitemnestra cerca un’altra via, un’altra possibile rappresentazione di sé
stessa come parte della società, un’altra storia. Cerca di cambiare la narrazione del (e dal)
femminile. Il suo antagonista, Agamennone, è anche lui intrappolato in un ruolo, in un
nome, in un personaggio. Fin quando Clitemnestra e Agamennone non deporranno
definitivamente le maschere insite nei propri nomi, nessun dialogo sarà possibile: questa è
l’unica certezza cui, nel nostro spettacolo, attraverso un percorso pieno di dubbi e domande,
giungerà Clitemnestra. E Agamennone?
(Lea Barletti)


Questo spettacolo ha avuto una lunga gestazione prima di approdare alla sua forma attuale.
Quello che è sempre rimasto uguale è il testo e proprio dalla forma del testo, quasi più che
dal contenuto, deriva la radicale riduzione di mezzi scenici alla quale siamo arrivati. È un
testo in versi, in gran parte in rima baciata … non si scappa da una struttura del genere. Il
testo, la Storia, i ruoli sono già scritti, e noi ne siamo i testimoni. È nella reazione a qualcosa
che è già scritto, nello scarto fra ciò che si pensa e si sente e ciò che si pronuncia che si
articola il nostro spazio di libertà. Così è stato per duemila anni o più fra uomini e donne,
sempre gli stessi versi, così nella gestione del potere, sempre gli stessi schemi, le stesse
guerre, nell’utilizzo della religione, gli stessi stratagemmi. Ora noi siamo gli ultimi abitanti
di questo antico e terrificante edificio e abbiamo il dovere morale di fare uno scarto. In
questo scarto Clitemnestra ci guida attraverso un lento processo di presa di coscienza. Le
parole si scostano pian piano dal tracciato sempiterno, emergono a fatica dal buio della
storia. Gli spettatori, una parte dei quali è munita di piccole torce dal fascio strettissimo,
sceglie cosa vedere, scruta i dettagli, le minuscole reazioni dei corpi/statua dipinti di bianco
e partecipa in questo modo alla narrazione: è responsabile di quello che vede e di quello che
vedono gli altri. Questa è una storia di tutti, ognuno ne fa parte, nessuno è fuori. Ad un certo
punto poi si fa luce e ci troviamo nel presente, nello stesso spazio, senza più maschere né
altrove, senza eroi né profeti. Ci si guarda in faccia: è ora di cambiare.
(Werner Waas)

link critica: https://www.teatrionline.com/2022/05/parla-clitemnestra-di-compagnia-barletti-waas/

(Articolo di un giornalista Rai che ci ha chiesto di restare anonimo)

Bari, 30 settembre 2023, Chiesa di S. Gaetano

“Parla, Clitemnestra! – Un’eterna tragedia”, in versi, di Lea Barletti

con Lea Barletti e Gabriele Benedetti, regia di Werner Waas.

Dopo lo spettacolo, lo stretto plinto che gli attori hanno usato come palco è coperto di un velo di polvere. Sul piano lucido e nero si distinguono le scie semicircolari tracciate dai piedi nudi di Clitemnestra e Agamennone, che si sono parlati e sfiorati a lungo (sfiorati, anche abbracciati, ma soprattutto sfiorati data l’esiguità dello spazio). Quella che potrebbe sembrare calce sfarinata e planata dal soffitto, sono invece scaglie di cerone, che gli attori avevano spalmato sulla pelle e sui capelli. Nella scena, si sono mossi come figure di stucco improvvisamente animate. Un risveglio (reale o sognato?) che per Clitemnestra è l’occasione per evadere dai ruoli assegnati finora dal padre, dai mariti, dallo stesso drammaturgo. Nello spazio di questo copione, l’eroina dunque riscrive il suo destino e ribalta i canoni narrativi, quanto basta per dare alla protagonista una voce inedita. Come se la parte più autentica di questa donna finora avesse taciuto, o pronunciato parole non sue. 

Le pareti della chiesa di San Gaetano a Bari Vecchia sono un teatro di ombre. La sagoma dell’attrice si distingue sui muri, proiettata dalle torce elettriche fornite al pubblico. Senza lo spettatore, Clitemnestra avrebbe parlato in una sala buia. 

Il dialogo con Agamennone in effetti è intimo, precisamente coniugale. Il sovrano, il guerriero, è nudo salvo un lenzuolo bianco. Le insegne del potere e della gerarchia marziale sono rimasti fuori dalla stanza. Eppure, questa stanza è un teatro di passioni. La morte sembra aleggiare sopra le nostre teste. Come minaccia, come orizzonte, come cosa tra le cose. Intatta è la rabbia di Clitemnestra verso il marito (più volte assassino, più volte ai danni della sua “unica donna”). La pelle brucia sotto il bianco, muove i corpi e li induce a torsioni continue, sempre scomode. Sono le parole a scolpire in continuità le uniche forme dell’azione. I nomi che diamo alle cose, sembra spiegare la protagonista, ne decidono la sostanza. Così funziona, forse, la coscienza. Le parole attivano una catena di riflessioni, esitazioni, deliberazioni. A partire da certe sue parole, la protagonista deciderà così la sorte del marito, potente sovrano.  

A determinare la realtà rappresentata è anche lo spettatore. Puntando le luci verso gli attori, il pubblico guida lo sguardo. Ciascun fascio di luce indica anche agli altri spettatori, li interroga: “Che dite, è qui che bisogna guardare adesso?”, poi Clitemnestra lo dice: gli eventi che osserviamo sono determinati dalla nostra presenza. Lo spettatore, quindi, non è mai estraneo. Anzi, lo spettatore crea attivamente i fenomeni che propone alla propria coscienza.

L’esperienza dunque è collettiva. Uno spettatore si domanderà come mai l’estraneo seduto dall’altra parte della sala abbia deciso di illuminare quella spalla, quello zigomo, magari lasciando in ombra un altro sguardo, un’altra mano. Un altro spettatore con la sua torcia tenterà di rimediare, mentre il copione scorre. La parola libera di Clitemnestra illumina le sue intenzioni, rompe l’ombra del cuore. Non solo la scena è esplicitamente interattiva: lo diventa anche il dialogo tra gli spettatori. Sottolineo “esplicitamente”: finora abbiamo dialogato con gli estranei della platea attraverso segnali più discreti, subliminali. Ci siamo esposti ai sospiri, ai colpi di tosse, alle suonerie distrattamente attivate, ma anche ai segnali più sottili, le vibrazioni olfattive che il cervello registra e trasforma in emozioni che la coscienza non sa spiegare. Entrando in una sala, condividendo il buio artificiale con un gruppo di estranei, ci esponiamo a un contagio emotivo che è pura biologia. Di più: mettiamo in gioco il nostro vissuto, le nostre emozioni, i nostri umori. Il corpo di uno spettatore lavora sempre. La scelta del regista, suggerita dalle parole di Clitemnestra, porta alla ribalta anche noi spettatori. Forse non è un caso che ciò avvenga dopo il digiuno imposto dalla pandemia.