PARLA, CLITEMNESTRA!
un’eterna tragedia, in versi
di Lea Barletti
regia di Werner Waas
con Lea Barletti e Gabriele Benedetti
testo di Lea Barletti
produzione Compagnia Barletti/Waas
con il sostegno di Florian Metateatro e Consorzio Altre Produzioni Indipendenti
foto di Luciano Onza

Clitemnestra è uno dei tanti “danni collaterali” della gloriosa Storia degli uomini, nello specifico la guerra di Troia, con i suoi eroi (maschi), perdenti o vincitori che siano, e le sue vittime sacrificali (donne, bambini) che assurgono agli onori di quella stessa storia grazie al proprio sacrificio (Ifigenia, per esempio).
Clitemnestra, nota prima come moglie fedifraga e assassina di Agamennone, poi in quanto vittima del matricidio che il figlio Oreste compirà per vendicare la morte del padre, non merita invece che le si intitoli una tragedia. La sua storia? Non pervenuta.
È il momento dunque di far parlare Clitemnestra, e di ascoltarla. Intrappolata in un ruolo, in un nome, in un personaggio, cerca un’altra via, un’altra possibile rappresentazione di sé stessa, un’altra storia. Il suo antagonista, Agamennone, è anche lui intrappolato in un ruolo, in un nome, in un personaggio. Fin quando Clitemnestra e Agamennone non deporranno definitivamente le maschere insite nei propri nomi, nessun dialogo sarà possibile. Questa è l’unica certezza cui, attraverso un percorso pieno di dubbi e domande, giungerà Clitemnestra. E Agamennone?
Note di regia
Su di un piedistallo al centro dello spazio scenico, due corpi imbiancati e polverosi come antiche statue, un uomo e una donna, seduti vicini a formare una sorta di gruppo marmoreo: Clitemnestra e Agamennone. Gli spettatori prendono posto tutt’intorno. Su alcune sedie sono appoggiate delle piccole torce a fascio strettissimo. Attraverso queste torce, saranno infatti gli spettatori a illuminare lo spettacolo: a scegliere cosa vedere, scrutando i dettagli, le minuscole reazioni dei corpi/statua, le espressioni, le esitazioni, i lenti movimenti. Il pubblico partecipa in questo modo alla narrazione: è responsabile di quello che vede e di quello che vedono gli altri. Se improvvisamente tutti gli spettatori muniti di torcia dovessero decidere di non illuminare gli attori, lo spettacolo continuerebbe al buio e nessuno vedrebbe più niente, poiché non ci sono altre fonti di luce. Perché questa è una storia di tutti, una storia collettiva, nessuno se ne può dire fuori, questa è una storia che abbiamo scritto insieme e alla cui responsabilità non si sfugge. La presenza degli spettatori è una presenza/testimonianza che modifica e influenza l’azione in scena, sceglie, decide cosa guardare e cosa no, cosa sottolineare e cosa trascurare, decide cosa è importante e cosa non lo è e può quindi essere lasciato al buio, ai margini. Ad un certo punto poi, a tre quarti dello spettacolo, finalmente arriva la luce, una luce per tutti e su tutti, attori e spettatori: ci ritroviamo nel presente, nello stesso spazio, senza più maschere né un altrove, senza eroi né profeti. Ci si guarda in faccia: è ora di cambiare.
Il testo dello spettacolo è in versi, in gran parte in rima baciata. Nella “gabbia” della rima, quasi ossessiva con il suo ritmo e i suoi continui rimandi, il testo, un pamphlet femminista, addomestica la sua furia e acquista paradossalmente libertà e leggerezza, con un’autoironia che sorprende continuamente attori e spettatori, in un gioco quasi infantile alla riscoperta del potere delle parole.
È tutto già scritto: la storia, i suoi protagonisti e le figure che restano ai margini, la guerra e le sue vittime, la ragion di stato, i ruoli prestabiliti, le gabbie del pensiero, il gioco tra le parti, il patriarcato, la legge del più forte, l’incapacità di un pensiero critico, il peso del passato, i dettami delle mode o delle religioni, la violenza dei rapporti. Dove trovare una via di fuga?
Forse l’unica possibilità sta proprio nello scarto fra ciò che si pensa, ciò che si sente e ciò che si pronuncia: qui si articola un nostro spazio di libertà. Così è stato per duemila anni o più fra uomini e donne, sempre gli stessi versi, le stesse “rime”, le stesse scuse e accuse, e così nella gestione del potere, gli stessi schemi, le stesse guerre, l’utilizzo della religione, gli stessi stratagemmi, le “eterne scuse del potere”, come dirà Clitemnestra. Un meccanismo infernale all’interno del quale siamo imprigionati e immobili come statue.
Siamo gli ultimi abitanti di questo antico e terrificante edificio e abbiamo il dovere di fare uno scarto. In questo scarto Clitemnestra ci guida attraverso un lento e doloroso processo di presa di coscienza. Le parole si scostano pian piano dal tracciato stabilito, emergono a fatica dal buio della storia. Adesso tocca a noi prendere la parola: che fare?